Libri

Dialoghi. Intervista a Erri De Luca

Francesca Fichera

Lo scrittore Erri De Luca si racconta ai microfoni di Scene Contemporanee, nell’atmosfera di calorosa accoglienza partenopea al film Il turno di notte lo fanno le stelle, da lui scritto e interpretato


Erri De Luca ha fatto ritorno, ancora una volta, nella sua Napoli. Per la precisione all’Istituto Francese “Grenoble”, dove, insieme con il regista Edoardo Ponti e l’attore Enrico Lo Verso, ha presentato Il turno di notte lo fanno le stelle, cortometraggio da lui scritto e interpretato. All’evento ha dato il suo contributo anche l’attrice Isa Danieli, coinvolta nella lettura di un brano tratto da un testo inedito dello scrittore, La doppia vita dei numeri, pubblicato insieme con il dvd del film. Dopo le numerose domande del pubblico, seguite alla proiezione, De Luca ha risposto alle nostre, parlando al microfono di Scene Contemporanee:

Leggendo i suoi libri vien sempre fuori un sapore, un odore, una “sinestesia di tradizioni”. Se le venisse chiesto di dare un consiglio a quei ragazzi che, per poter scegliere, sono costretti ad andare via, cosa direbbe loro affinché difendano e conservino la propria identità, le proprie origini, nel mondo attuale?

Essere espiantato come un ravanello, essere buttato lontano a cercare di attecchire altrove, è stata un’esperienza molto comune al 1900, e adesso si rinnova anche in questo secolo secondo delle grandi migrazioni. E le persone che hanno subito questo espianto verso una seconda patria alla fine sono riusciti a cavarsela meglio, a attecchire senza rinunciare alla loro provenienza, alla loro origine, senza rinunciare ai loro affetti e alla loro casa di partenza. Andare in giro, viaggiare, specialmente da giovani, per necessità e non per turismo, è una buonissima scuola.

Quindi non siamo, come ha detto una volta a Le invasioni barbariche, “orfani di patria”?

Sì, siamo orfani. Chi se ne deve andare per necessità è trattato da figliastro, è un orfano di una patria che lo ha espulso; e se ne deve cercare un’altra, una patria seconda, adottiva, abbracciarne la lingua, i costumi, mischiarsi con altre folle. Ma questo meticciato giova, intanto alla specie umana, e poi alla persona che lo affronta.

Lei, durante la discussione del film Il turno di notte lo fanno le stelle, ha detto “Io continuo a scrivere favole”. Ma nello scrivere favole non si contribuisce comunque alla crescita dell’impegno individuale, del senso civile del vivere insieme?

No. La scrittura, come la lettura, serve a tenere compagnia. Anche il più grande libro, il più solenne, questo deve fare: tenere compagnia. Anche Chisciotte o Pinocchio. Quando hanno fatto questo, hanno fatto il loro mestiere, il loro dovere, e hanno salvato il tempo di qualcuno.

Però lei prima ha parlato di libertà: “un prigioniero è libero quando dorme e quando legge”…

Sì. Con la lettura ti difendi meglio. Con la lettura ti difendi meglio in luoghi di emergenza, come per esempio in Sarajevo, con i poeti che facevano le serate di poesia. Ti proteggi meglio in un andirivieni dal posto di lavoro, a casa. Se hai un libro, non dai per perduto quel tempo di spostamento. Dentro un treno, un autobus oppure una corsia d’ospedale, se hai un libro ti proteggi meglio. E poi ti trovi in bocca delle parole che finalmente sono tue. Non te le ha messe in bocca qualche imbonitore televisivo.

Ne Il torto del soldato dà voce a questa donna che delega al lettore il compito di “sbrogliare la sua storia”. A chi va il frutto del suo scioglimento, della soluzione?

Sempre al lettore! Sempre al lettore spetta il frutto della soluzione… In un libro giallo, in un libro di favole, sempre spetta al lettore portare a finitura quello che ha letto.

Per quanto riguarda, invece, la scrittura, quando lei si è trovato ad adattare il testo del suo racconto per il film di Edoardo Ponti, in che modo l’ha condizionata la sua differente destinazione?

Nessuno. Non c’era un testo di scrittura disadattato che ho dovuto adattare.  La mia scrittura è fisica, visionaria, quindi partecipa già di questa trasformazione sensoriale.

Però dalla lettura dei suoi libri si ha soprattutto la percezione dei sapori – lei cita spesso la cucina napoletana -, e questa è una cosa che non si può rendere con il Cinema, una tradizione fisica che non è immagine e che il Cinema non ha.

No, il Cinema il gusto non ce l’ha. Gli manca questo senso. Non te lo può trasmettere. Magari uno di questi giorni metteranno in sala i profumi di quello che stanno mangiando i personaggi del film…

Si pensi al 4D…

Vabbè, ma in fondo sono giochetti.

Un’ultima domanda, con qualcosa di personale al suo interno: un consiglio sul momento giusto in cui ci si può cominciare ad affacciare sul mondo dell’editoria, perché scrivere si può fare sempre, ma pubblicare è un’altra cosa.

Il mondo dell’editoria non è la destinazione della vocazione alla scrittura. Si scrive perché non se ne può fare a meno, non perché si vuole andare da un editore. Scrivi perché non puoi mettere nient’altro in nessun altro posto, perché quell’esperienza fisica, sentimentale, quello che hai in corpo non lo puoi mettere da nessun altra parte. Sei costretto a finire in quell’alloggio stretto della scrittura. Se c’è questo allora il resto viene da sé, ma se scrivi per trovare un editore il punto di partenza è sbagliato. Meglio fare un’altra attività, meglio dipingere per una galleria d’arte.

D’altronde noi un prezzo già lo paghiamo nello scrivere. Ma il mercato in qualche modo ci condiziona, ci invischia…

Il mercato è quello che è. Il mercato vuole vendere i suoi prodotti. Ma prima di arrivare a questo, tu devi essere il padrone della tua scrittura. Devi essere il tuo signore. Non il cliente di qualche editore.



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