Intervista a Chiara Nicolanti
Conosciamo Chiara Nicolanti, giovane e bella attrice romana con un passato di formazione accademica e un presente in continuo divenire. In questo periodo è in scena all’interno del Festival Internazionale del Film di Roma per la sezione “Alice nella Città”.
Chiara Nicolanti, capelli biondi, occhi verdi, e un sorriso meraviglioso.
Si è formata all’Accademia Pietro Sharoff e ha approfondito le teorie e le tecniche dello spettacolo dal vivo all’Università ‘La Sapienza’ di Roma. Ha poi seguito percorsi molteplici che le hanno consentito di non fossilizzarsi su un unico linguaggio o stile interpretativo; complice, in questo, la sua inarrestabile forza di volontà che l’ha spinta a uscire fuori dai confini del Belpaese in cerca di risposte e di continue conferme.
Chiara è bella, brava, ma non è solo questo. Ha una marcia in più per l’umiltà con cui si presenta. Non smette mai di sorridere, parla tanto (ma proprio tanto), però non ti stancheresti mai di ascoltarla: con quella gestualità ampia, il linguaggio schietto e sincero, le cose interessanti che ti racconta, ti spiega, e – soprattutto – una malcelata autoironia.
Nelle foto che la ritraggono in scena o su un set sembra una persona totalmente differente, maliarda e sicura di sé. E se sono i riflettori a imporle una trasformazione radicale, e che richiedono di scavare all’interno, in profondità, per far emergere in superficie un’immagine o un carattere che non le affibbieresti mai, ebbene, lei sa perfettamente come adeguarsi, al punto che spesso chi l’ha diretta ha scelto il suo volto proprio per farla incarnare in ruoli assolutamente fuori dall’ordinario, pulsanti di passioni irrazionali.
Allora, Chiara, parliamo un po’ di te, dei percorsi formativi che hai seguito per arrivare dove sei oggi.
Io ho iniziato paradossalmente senza una formazione, quando ero piccola. Nel senso che il primo film indipendente l’ho fatto mentre frequentavo il liceo e l’unica cosa che mi aveva vista recitare era un corso di recitazione in francese, dato che studiavo al liceo linguistico. Mi scelse quindi un giovane regista indipendente, come co-protagonista in un suo film. Solo dopo ho cominciato a studiare, facendo l’Accademia Pietro Sharoff…
Vorrei che tu mi parlassi un po’ del lavoro che si svolge in Accademia. Come era impostata la didattica, quali erano secondo te la possibilità offerte dall’ambiente?
L’Accademia per me è stata una sorta di “scuola elementare”, dove si studiava dalla tragedia greca al teatro contemporaneo. Questo metteva lo studente di fronte a delle difficoltà diverse: un conto è dover imparare a memoria mille versi di una tragedia di Eschilo, un conto è fare teatro comico: sia il grado di immedesimazione, che il linguaggio corporeo richiesto è completamente diverso. In Accademia si studiano le materie di base, la dizione, la danza contemporanea, la danza per il musical, il teatro comico, la tragedia classica, e anche le lezioni di acrobatica, che ti davano un’ottima preparazione fisica. L’Accademia è, a mio avviso, importantissima perché ti dá tutto; a tal proposito, pochi giorni fa è scomparso il maestro Roberto De Robertis, allievo diretto di Sharoff: attraverso le sue lezioni, basate sul metodo Stanislavskij, si lavorava soprattutto sulle circostanze date, quindi sull’improvvisazione (la prima parte del metodo). Mi ha lasciato moltissimo, davvero. De Robertis era fantastico, ci diceva di “non fare le cartoline”, di non dire tutto al pubblico, perché il pubblico ti capisce! Ha insegnato fino all’ultimo giorno della sua vita. Una persona veramente eccezionale, come il direttore dell’Accademia, Luigi Rendine, che tra l’altro lottava per la riapertura dei teatri dei piccoli centri del Lazio, per dare a tutti la possibilità di avvicinarsi al teatro, di frequentarlo, magari anche di studiarlo. Credo che chiunque prima o poi dovrebbe seguire un corso di teatro, perché il teatro ti fa capire delle cose di te stesso che altrimenti non capiresti mai.
Alla fine dell’Accademia, poi, c’è stata la possibilità per gli studenti meritevoli di entrare all’interno della compagnia dell’Accademia, con cui ho lavorato un anno, facendo degli spettacoli nel Lazio (era il 2009/2010), come Le Coefore di Eschilo in un anfiteatro a Fara Sabina, di cui abbiamo messo in scena una ricostruzione “archeologica”, o L’Anniversario, all’interno di una rassegna comica, restituendo a Checov la sua vera comicità, spesso fraintesa, e sostenendo l’idea che si può essere comici senza essere volgari.
L’Accademia aveva ospitato un incontro con i Marcidos Marcidorjs E Famosa Mimosa. Su di loro ho scritto in seguito una ricerca per l’Università in cui racconto la mia esperienza con questa compagnia al VolterraTeatro Festival, dove sono andata perché, dopo aver visto un loro spettacolo, mi sono innamorata di questa “cosa” che non capivo. Ero molto acerba, avevo 19 anni, con una formazione universitaria di primo anno… Grazie a questo stage si può dire che io abbia scoperto quella che è la sperimentazione, l’avanguardia, in Italia.
Quindi, l’esperienza con il gruppo di Marco Isidori ha rappresentato in qualche modo una prima apertura rispetto alla formazione accademica…
Sì, per questo dicevo che l’Accademia è un po’ come una scuola elementare, perché ti insegna l’ABC, e poi tu ti domandi “Ok, che parole posso formare con questo ABC?”. Penso che la scelta di entrare in una compagnia “stabile” debba essere una scelta molto oculata, perché ti prende totalmente. Io, quando ho conosciuto i Marcidos e mi si è presentata la prospettiva di trasferirmi a Torino per cominciare un percorso professionale con loro, ero appena uscita dall’Accademia, e ho avuto paura. Ho scelto quindi di rimanere a Roma, per curare innanzitutto il mio eclettismo.
Dopo un paio d’anni ho avuto l’incontro con Daniele Scattina. Lì mi sono resa conto che volevo sapere qualcosa in più su Shakespeare – su cui Scattina lavora molto – perché sì, si conosce Shakespeare, ma in che modo? Allora sono andata a Londra, all’Actor Centre, e lì c’era un insegnante, un interprete shakespeariano che non solo ti spiegava come recitare il blank verse, ma ti insegnava anche delle cose bellissime sull’ “internazionalità” del teatro. Io stavo lavorando su un pezzo che mi portavo dietro dall’Accademia, dal Sogno di una notte di mezza estate, in cui interpretavo Puck, un personaggio che ho amato profondamente, per la sua “innocenza”, quel “ridere” sempre, farsi beffa di tutto. Quell’anno, infatti, mi sono laureata facendo la tesi su Ottavia Piccolo, che ha interpretato per Strehler il personaggio del fool in King Lear, e l’avrà fatto per 12-15 anni, in qualsiasi situazione della sua vita, mentre era incinta… mi incuriosiva il fatto che fosse una donna a interpretare il fool di Shakespeare… e non a caso subito dopo aver discusso la tesi sono andata a Londra per studiare questo personaggio. Ed è stato bellissimo perché quando siamo arrivati allo spettacolo di fine corso, dopo tre mesi che non parlavo l’italiano, l’insegnante mi chiese “Ok, adesso interpretamelo in italiano!”. E’ stato esplosivo, perché prima avevo l’ansia della dizione inglese, anche se l’insegnante mi diceva “Non fa niente se stars non è detto bene, guarda le “stelle” e noi le vedremo con te!”. Nel momento in cui ho recitato nella mia lingua madre, e gli esaminatori erano anglofoni, lui mi disse “Hai fatto uscire fuori quello che vedevi”. E secondo me in questo consiste la forza del teatro: non importa se parli o meno la lingua dei tuoi spettatori. Perché il teatro non muore e non morirà mai? E’ quello che dice Eugenio Barba ne La canoa di carta, nel teatro c’è quella carica in più che non sai che cos’è, però c’è…
Poi sono tornata in Italia, e ho lavorato in diversi spettacoli con Scattina…
Parlami brevemente di questa esperienza.
L’esperienza lavorativa con Daniele Scattina è stata, forse, la più importante nella mia carriera, soprattutto per un discorso di maturazione artistica personale. Daniele ha studiato presso la scuola “Il Mulino di Flora”, ha avuto modo di entrare in contatto con personalità come Leo de Berardinis, Perla Peragallo e Carmelo Bene, i cui influssi sono visibilissimi. L’uso della voce, della scenografia e della drammaturgia stessa non possono non iscriversi in quella particolare corrente contemporanea che vedeva quei maestri protagonisti di un nuovo modo di presentare, ed usare, lo spazio scenico. Così, ad esempio, in Amleth, il personaggio femminile di Ophelia si divide in tre, per permettere ad ogni sfaccettatura di questa donna di essere presente in scena: c’è l’Ophelia passionale, innamorata di Amleto di un amore fortemente carnale, quella nera, fattasi complice di un piano per incastrarlo, e quella bianca, l’Ophelia bambina, innamorata del suo primo amore come di suo padre, quella che si perde e la cui anima cede. Io ero interprete di questa sfumatura del personaggio shakespeariano. Scattina rendeva visibile lo smarrimento di questa anima bianca durante la scena dei doni, quando, mentre le altre due continuavano a parlare con Amleto, lei rimaneva bloccata, come una statua di cera, come un angelo di pietra. Amleto continuava ad urlarle contro, e lei, immobile, piangeva, mentre le altre urlavano, supplicavano, si giustificavano. La “statua” di Ophelia rimaneva immobile sul palcoscenico per la durata dei due atti seguenti, fino a quando, vestita di un abito da sposa che non avrebbe mai indossato, si scioglie cantando una ninna nanna (monologo della follia) sul corpo di suo padre, e pian piano, affonda nel suo vestito di tulle e merletti bianchi, nel verde della luce del proscenio.
L’abito da sposa è stato l’oggetto che mi ha accompagnato anche nella seconda produzione in cui ho lavorato con Daniele: Lord & Lady Macbeth. Questo spettacolo fa parte di quella che potrei definire una trilogia (insieme a L’animalità di Macbeth e Clan Macbeth). Da una compagnia al completo sul palcoscenico, ai tre personaggi del Clan, fino alla tragedia “da camera” dei due soli protagonisti, la regia vedeva un lavoro di forte riduzione del testo originale. Tutte le azioni sceniche previste si riducevano nello spettacolo alla tessitura della rete che la Lady costruisce intorno al suo amatissimo Lord, per poi rimanerne fatalmente imprigionata. La Lady stringe un patto con gli inferi in cambio del successo del suo signore, vende il suo ventre, il suo essere donna, il bambino che quell’uomo avrebbe potuto donarle, un feto di cui diventa simbolo il fascio di rose rosse di cui divora i petali, vestita di quel famoso abito da sposa che diventa vestito della prima comunione, quando, ormai tornata bambina, sprofonda nella follia del rimorso.
Hai affrontato anche testi nuovi, italiani? Se sì, con chi hai lavorato e dove?
Daniele Scattina mi ha conosciuto perché venne a vedere uno spettacolo al Teatro dell’Orologio, un progetto che era nato al Teatro Furio Camillo, di Fabrizio Romagnoli, dal titolo Aggiungimi (2011): la storia di due ragazzi gay, uno dichiarato l’altro no, che si conoscono tramite Facebook; un testo dal carattere molto giovane, spigliato. Io facevo la co-protagonista, la migliore amica di uno dei due. L’opera poi era strutturata in modo tale che la stessa attrice interpretasse altri piccoli ruoli, un po’ spinti ma mai macchiettistici. È stat una bella sfida, perché se interpreti quattro personaggi devi dare a ognuno dei ritmi diversi; insomma, se non sei nettamente diversa non funzioni. E a quanto pare andò bene, le persone ridevano a tal punto che spesso ero costretta a fermarmi. Pensa che un po’ di tempo fa mi hanno anche fermato per strada, chiedendomi “Ma tu sei quella?”, perché erano personaggi talmente caratterizzati da essere memorabili! E’ stata un’esperienza molto bella. Con Fabrizio poi mi sono ritrovata su un set per un film di Fabio Breccia, il giorno prima che partissi per l’America! Tra l’altro un soggetto davvero bello, su un amore incestuoso tra un padre e una figlia, che nel loro pieno coinvolgimento vivono il loro amore come assolutamente normale. Il set era molto giovane, con persone veramente capaci, e un direttore della fotografia eccezionale.
A proposito dell’esperienza americana, recentemente hai vinto una borsa di studio per il Susan Batson Studio di New York. Dimmi di cosa ti sei occupata e in che modo la formazione di questo istituto ti ha influenzato.
Bisogna dire che il metodo della mia coach Yvonne D’Abbraccio, fondatrice dell’agenzia YD’Actors, ha delle cose in comune con quello di Susan Batson, e per questo devo ringraziarla molto se ho vinto il provino e questa borsa di studio, dopo lo stage che Susan Batson ha tenuto a Roma. Sono partita ed è stata un’esperienza fortissima. Susan lavora con un metodo che si rifà sia a Strasberg sia Uta Hagen che a Berkoff, e quindi mette insieme tutto il lavoro dell’attore su se stesso e sul personaggio di Stanivslavskij. E si domanda “come posso utilizzare questo studio di me, che diventa poi lo studio del personaggio?”; la risposta è che tutti i personaggi, come le persone, sono attraversati da tre forze: il Need, che è il “bisogno”, la Public Person, e il Tragic Flaw, l’errore tragico. Nel momento in cui sai che le loro azioni, i loro “tic”, le loro decisioni dipendono da queste tre forze, già hai un fulcro. Il discorso è che prima devi scoprire queste cose di te, per capire poi che cosa puoi utilizzare di “te” per gli “altri”, i personaggi. Lavori prima sul tuo inconscio, poi su quello del personaggio, e da lì parte tutto il resto: l’utilizzo degli oggetti, della quarta parete, etc..
Susan Batson negli USA è una delle coach più importanti, è la “coach degli Oscar”; ha fatto di vincere l’Oscar a Nicole Kidman, la nomination a Julianne Moore. Si può dire che lei lavori sul “brivido” procurato allo spettatore di fronte all’interpretazione dell’attore.
Ora sei impegnata al Festival Internazionale del Film di Roma…
Sì, Yvonne D’Abbraccio e alcuni attori della sua agenzia sono ospiti del Festival Internazionale del Film di Roma, con un evento da lei ideato e diretto: “Sinestesia” – Il sensoriale nella follia del Cinema basato sul ritmo e sul sensoriale attraverso l’interpretazione di testi tratti dal grande cinema d’autore. La “YD’Actors” è molto di piú di una classica agenzia. La direttrice artistica, Yvonne D’Abbraccio, dirige infatti anche una scuola di recitazione, secondo il metodo di studio da lei ideato “My Act”, e organizza inoltre qualcosa che c’è anche in America, le industry nights, eventi in cui la scuola, l’agenzia, lo studio, apre le sue porte a quella che è l’industria: un pubblico selezionato di registi, produttori che si fidano e sanno che quello spazio è una fucina di nuovi talenti e che quindi accorre ad osservarli. E lì devi dare il meglio di te…
Per il Festival di Roma occasione sto lavorando su un monologo tratto da The Quiet. Anche qui un personaggio “diabolico” (gli “estremi” sembrano calzarmi bene!): una ragazza abusata dal padre rivela alla sorella sordomuta che quella notte ucciderà il loro padre. E anche qui, la cosa straordinaria – che fa davvero rabbrividire – è il modo in cui comunica la sua decisione: senza malvagità, facendola rientrare in quello stato di cose “normali”; perché l’odio, la paura, la fragilità sono come un sostrato che ci appartiene… caratteri che giacciono dentro ognuno di noi…