Arti Performative Dialoghi

Teatro Magro: dal teatro sociale al teatro della discoteca, con “Opera Omnia 2 – Disco”

Chiara Nicolanti

«Il teatro e la discoteca sintetizzano due forme di aggregazione sociale. Posseggono una forte componente democratica che si riflette sia nella presenza di un pubblico differenziato sia nell’estetica contemporanea basata sull’accessibilità tecnica di qualsiasi forma d’arte. Due spazi non identificabili senza la presenza di un corpo che li agita. Luoghi di espressione del sé, dove l’io incorpora idee e proietta immagini con cui accetta di identificarsi senza scadere mai nella rappresentazione pura, ma restando sempre sulla soglia dell’auto-rappresentazione».

Discoteca e teatro. Giovani e discoteca. Funzioni di un’equazione che trova espressione dentro la formula creata dal gruppo teatrale di ricerca mantovano Teatro Magro. “Opera Omnia 2 – Disco”, questo è il titolo della nuova produzione che andrà in scena in prima assoluta al Teatro Comunale di Medole (MN), sabato 19 marzo. Altre prossime date previste, il 9 aprile al Teatro Comunale di Guidizzolo (MN) e il 16 e il 17 a Mantova, per la rassegna AltroTeatro, presso il Teatro Spazio Studio S. Orsola. In occasione di questo atteso debutto, abbiamo rivolto alcune domande alla compagnia sullo spettacolo anche per capire un po’ quali sono gli interessi della loro ricerca.

Siete un gruppo di lavoro, se così vi si può definire, molto attento al sociale e al contemporaneo. Questo vi permette di entrare in relazione con varie fasce della società. Con quale di esse è più difficile entrare in contatto e come avete risolto il problema?

Sicuramente il fattore discriminante, che rende più difficile entrare in contatto con un determinato segmento sociale, è la familiarità o meno con il teatro. Ma quando questa familiarità non c’è non ci spaventiamo, anzi. Sentiamo che avvicinare le persone al teatro rappresenti un po’ una nostra missione. Il teatro nasce come luogo e strumento di aggregazione sociale, non possiamo non tenerne conto, ed è il motivo per cui andiamo nelle scuole, nelle strade, e cerchiamo di avvicinare le persone al teatro con le nostre performance. Un’altra fascia di persone con è più difficile entrare in contatto sono le persone più anziane. Spesso il linguaggio che usiamo, essendo più performativo e meno riconducibile ai canoni di un “teatro classico” , genera delle incomprensioni. Il linguaggio che usiamo non è “mimetico” rispetto al reale, e il fatto stesso che scardiniamo luoghi comuni ci porta a scardinare anche la forma, o meglio, le logiche abituali attraverso le quali siamo soliti entrare in relazione con la realtà. 

Dal 1988, anno della vostra nascita, ad oggi, ci sono stati dei cambiamenti significativi nel vostro linguaggio artistico?  Possono essere riconosciute delle tappe nel vostro percorso di crescita?

In generale, nella scelta delle strade da seguire abbiamo sempre fatto quello che ci interessava, senza mai seguire una moda, una tendenza o un settore specifico: abbiamo lavorato sui classici, ricercando una nostra drammaturgia, per poi dirigerci verso un linguaggio più performativo. Dal 1988 a oggi sono quasi trent’anni di attività, e avere delle svolte viene naturale, che non è semplice neanche sintetizzarle tutte. Tra le altre cose abbiamo anche fatto una produzione davvero impegnativa grazie a un bando indetto dall’Unione Europea che abbiamo vinto nel 2012: DICTAT – Performative Culture Cooperation for awareness on past European DICTATorships. Questo solo per dare un’idea… ma ci sarebbe molto altro da dire!

Teatro Magro ha affrontato non solo la costruzione di spettacoli, ma anche di manifestazioni ben più ampie, come progetti territoriali o dedicati alle scuole.

A proposito di questo, come hanno reagito gli alunni alle attività contro il bullismo? C’è stato imbarazzo?

Il contesto crea sempre imbarazzo. Più ci sono regole da osservare, più le rotture sono forti, e la scuola sicuramente è uno di quei luoghi in cui questo rapporto diventa maggiormente evidente. A Brescia siamo andati a prendere gli alunni nelle scuole e li abbiamo accompagnati sull’autobus. Non abbiamo fatto nulla di così strano da creare imbarazzo, perché la rottura che il teatro normalmente crea rispetto all’ambiente si creava solo all’esterno. Quando siamo entrati in un contesto fortemente connotato come quello delle aule scolastiche, la rottura, e quindi anche l’imbarazzo iniziale, è stato molto più forte. E questo l’abbiamo constatato in tutti i progetti che facciamo, non solo all’interno delle scuole, da quelli contro il bullismo a quelli sul gioco d’azzardo, ecc… È proprio una caratteristica del nostro modo di lavorare spezzare la quotidianità, creare delle rotture tanto più forti se il contesto è culturalmente più rigido.

Veniamo al debutto della vostra prossima Opera Omnia 2- Disco.

Se è vero che il teatro nacque da una dea che batteva con i piedi sulla terra per risvegliarla dall’inverno (secondo un antico mito indiano), quanto c’è di sacro e ancestrale nelle contemporanee discoteche? Perché i ragazzi decidono di incontrarsi in un luogo le cui condizioni inibiscono l’uso della parola e la razionalità?

Ancestrale, e possiamo dire, anche atavico è il desiderio a esprimere le nostre emozioni attraverso il corpo. La danza è nata proprio dall’eccesso di energia procurato dall’eccitazione dell’uomo primitivo, il giorno in cui è riuscito per la prima volta a ottenere quello che desiderava, durante la caccia. La danza serviva a celebrare le sue conquiste, a esprimere le passioni, non è altro che la formalizzazione delle emozioni in un linguaggio che prima di diventare rito è stato libertà di espressione e di movimento.

Non serve la parola per comunicare con le altre persone, esiste un livello di comunicazione che ne ha anticipato l’utilizzo e che si lega proprio a quanto detto prima, e cioè a una forma di espressione legata all’utilizzo del corpo, all’emozione pura. E’ da premesse come queste che nacque l’esigenza di costruire appositamente degli spazi come le discoteche, e in generale dei luoghi del piacere: spazi in cui in qualche modo vi è la ricerca di un effetto esteriore, e in questo senso si avvicinano al teatro; dove si viene completamente avvolti e travolti da sensazioni sonore, legate al linguaggio astratto della musica, linguaggio che non è vincolato dall’esigenza di comunicare, anche se entra in gioco l’atto dell’ascolto. Sicuramente l’esigenza di incontrarsi in questi spazi nasce dal desiderio di liberazione dalle sovrastrutture del quotidiano. Il motivo, insomma, è lo stesso che dalla notte dei tempi ha generato tutti gli altri contesti che appartengono al tempo dello svago. Nei riti, nelle feste pagane, è sempre stato il corpo a comunicare, mai la parola. Basta un travestimento. A tutto questo, chiaro, è andato a sovrapporsi il teatro, che altro non è che una festa creata ad hoc per riempire il tempo dello svago, proprio come le serate in discoteca…

La disco music è un genere musicale che permette l’aggregazione, così come l’abnegazione: l’Io tende a disperdersi, a fondersi con l’alterità. Quanto di questo comportamento entra nella vostra opera, e quanto, invece, il singolo riesce ad affermare la propria personalità?

Partiamo dal fatto che la discoteca non necessariamente deve essere l’habitat in cui i nostri performer si sentono a proprio agio (proprio come ci si può sentire a disagio su un palcoscenico). Negli anni Settanta era diverso, si veniva da un’epoca che ha visto protagonista la cultura hippie, e poi c’era la famiglia, la necessità di creare delle unioni sociali. C’era un maggiore spirito di coinvolgimento. La necessità di isolamento, di straniamento, che caratterizza chi oggi frequenta le discoteche deriva da tutto uno spettro di fattori tipici dei nostri anni, che al contrario di quanto si possa credere non tendono verso l’omologazione nelle intenzioni (forse negli anni Novanta era così), ma all’esasperazione sfrenata dell’Io e dell’individuo, dell’”essere” a tutti i costi: essere unici (una tensione che, però, è solo apparente, puramente intenzionale). Gli attori di Teatro Magro sono “performer”, quindi la componente individuale è già di per sé molto forte: non tendono a all’alterità di un personaggio, ma a una costruzione idealizzata, sublimata, del sé. Che è quello che poi, di fatto, avviene anche in discoteca.

Come è nata quest’opera?

L’idea iniziale, similmente a quanto accaduto per Opera Omnia 1 – C. Goldoni, era di mettere in scena una sorta di monografia prendendo in considerazione un solo autore estratto da un panorama culturale diverso da quello teatrale, affrontato nel primo volume del progetto. Quindi si è pensato alla musica, e di lavorare sulla discografia di un solo artista o sul corpus di opere di un solo compositore. Da lì, abbiamo poi capito che ci interessava di più approfondire la storia di un genere, e la nostra scelta è caduta così sulla disco music, perché è un tema che in qualche modo riguarda i nostri allievi dei laboratori da vicino.  Certo, è stata una sfida anche questa, perché abbiamo dovuto cercare di condensare quarant’anni di storia (e uno spettacolo non potrà mai dirsi esaustivo), però abbiamo cercato un taglio che in qualche modo permettesse a noi di lasciare un’impronta altrettanto forte.   

Che tipo di lavoro ha affrontato il regista con i performer? Potete descrivere il vostro approccio all’interpretazione? Cominciate il lavoro tramite un training strutturato, o attraverso la musica? I performer vengono guidati nel loro lavoro di ricerca? È una ricerca in solitaria o collettiva? Come si arriva al processo di sintesi?

Strutturare una performance per Teatro Magro è sempre un’operazione collettiva. C’è il tema e il regista guida, stimola i performer con degli esercizi che possano liberare delle proposte: non è un esercizio volto alla compressione delle idee, e quindi non ha un orientamento preciso, definito all’inizio, ma si fanno delle valutazioni generali sull’argomento scelto. Si cercano degli spunti di azione direttamente in scena. Sicuramente, nel caso di Opera Omnia 2 – Disco, la musica è stata uno strumento imprescindibile per arrivare a definire la ricerca delle azioni. La dialettica tra singolo individuo e gruppo, comunque, resta sempre sullo sfondo di qualsiasi azione. Anche quando si ha a che fare con un’azione che nel quotidiano siamo soliti compiere in solitaria, guardandoci dall’esterno possiamo accorgerci che ciò avviene in presenza di molte persone, e per lo più sconosciute (situazione tipica da discoteca, per esempio: bere un cocktail). Il fascino di portare questa materia in teatro consiste nel mettere in evidenza proprio questa strana relazione.

La recitazione è sempre molto essenziale. Dal punto di vista performativo, una delle nostre preoccupazioni è stata che questo spettacolo fosse un’operazione teatrale, ma comunque in equilibrio con l’aspetto musicale. Nessuno dei due elementi doveva prendere il sopravvento rispetto all’equilibrio spettacolare. Per quanto riguarda il processo di sintesi, questo riguarda l’essenzialità: la ricerca del nucleo. C’è un processo di asciugamento, di sintesi fortissima rispetto alle proposte dei performer. Resta solo quello che va trasmesso, privo di orpelli e di premesse. Alle volte questa cosa può anche essere di difficile comprensione, ma è quello che noi pensiamo valga davvero la pena lasciar passare. 

Qual è il rapporto con il pubblico, soprattutto in questa opera?

Il pubblico ha un valore altissimo sempre, e anche in questo lavoro. Non si riesce a fare spettacolo se non c’è pubblico, e quindi partendo da questo presupposto lo spettatore viene sempre tenuto bene in mente durante la fase di ideazione. Ci piace coinvolgerlo, anche dal punto di vista finisco, e succede, infatti, anche in questo spettacolo… 



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