Ad “Itaca” ritorna anche il Leone d’argento Michele Di Stefano
Tra i tanti meriti di Itaca/La bottega dei ritorni, il progetto laboratoriale partecipativo ideato da Vincenzo Albano nell’ambito – e ad apertura – della seconda stagione Mutaverso Teatro a Salerno in collaborazione con Maurizio Lupinelli e il suo progetto La Germania che ho in testa, dedicato a Fassbinder e al suo Sangue dal collo di un gatto, vi è sicuramente forte l’idea che esista un humus teatrale di salernitani che sentono ancora forti le loro radici con il territorio ma che allo stesso tempo hanno compiuto percorsi artistici molto variegati e differenti, e che in questi giorni si sono incontrati e conosciuti per costituire un nucleo che possa generare – perché no – future progettualità in grado di dialogare con il territorio in maniera identitaria e costruttiva.
Ospite speciale di questo progetto – che ha visto insieme persone che hanno continuato la loro attività a Salerno, persone che si sono diplomate nelle scuole teatrali italiane più prestigiose e che lavorano per spettacoli dalle tournée nazionali, persone che hanno scelto di seguire la propria strada di costruzione di autonomi prodotti performativi (una di queste, Alessandra Crocco, tornerà a maggio nella stagione di Mutaverso con il suo Progetto Demoni, realizzato insieme ad Alessandro Miele) – è stato un salernitano che invece negli anni ha costruito in maniera molto forte il proprio percorso artistico, ed in particolare nella danza contemporanea, divenendo uno dei punti di riferimento in Italia e apprezzato anche al di fuori dei confini nazionali, arrivando ad ottenere anche un prestigiosissimo riconoscimento come il Leone d’argento alla Biennale Danza del 2014, diretta da Virgilio Sieni. Stiamo parlando di Michele Di Stefano, della compagnia MK, che nonostante abbia un’attività artistica lontana dalla sua città natale, ha mantenuto forte il suo legame con essa, tanto da riconoscersi nella filosofia alla base del progetto ideato da Vincenzo Albano. Abbiamo avuto modo di scambiare qualche parola con lui proprio sul rapporto identitario con Salerno e sul fare attività performativa sul territorio.
Michele, innanzitutto è interessante sapere qual è il tuo rapporto con la città di Salerno. Cominciamo dagli inizi, ovvero prima di scegliere delle strade che poi ti hanno portato a lasciare il tuo luogo d’origine per compiere la tua esperienza artistica.
La cosa più importante da dire è che in realtà io la mia strada l’ho trovata qui a Salerno. La città ai tempi (anni ’90) aveva ancora una vivacità culturale piuttosto movimentata; se è vero che era l’ultimo momento di questa grande stagione attiva per Salerno (che vantava una grande tradizione di cultura teatrale del contemporaneo, per via di tutte le rassegne che ci sono state e per personaggi come Silvana Sinisi, Achille Mango, ecc.), è anche vero che io qui ho visto spettacoli gloriosi, tipo l’Amleto della Societas Raffaello Sanzio al Teatro A di Mercato San Severino. A fare da contraltare però c’è il fatto che invece quando si arrivava alle cose che mi interessavano in maniera particolare, ovvero la coreografia e la danza contemporanea, l’offerta era invece molto carente; questo però mi ha permesso di poter sviluppare la mia indagine personale autodidatta fuori dai contesti di circuito, in una sorta di isolamento, per cui le prime persone con le quali ho lavorato (e alcune di loro sono ancora nella compagnia) erano amici, cioè semplicemente persone che vivevano in questa città e condividevano con me la volontà di inventare e di costruire un’avventura assolutamente autonoma, ovvero distaccata da qualsiasi tipo di scuola. Per questo io non ho avuto bisogno di un contesto per costruire la mia ricerca artistica, ma l’ho sviluppata proprio perché il contesto non c’era, e questo da un lato ha reso il gruppo molto forte proprio perché non derivativo rispetto a delle informazioni sul momento coreografico. Partire da zero è stata la caratteristica principale che poi ha permesso a me e a quelli che lavoravano con me di trovare un percorso fuori, perché letteralmente venivamo da “Marte”, senza alcuna contestualizzazione di settore.
E adesso, invece, alla luce della tua esperienza maturata in tutti questi anni di ricerca artistica?
Il mio rapporto con la città rimane profondissimo ma non in termini anagrafici o biografici ma proprio per la qualità stessa del tipo di ricerca che abbiamo deciso di indagare in principio e che è dipesa innanzitutto da quello che abbiamo voluto costruire. È vero che una volta che i giochi, per così dire, erano fatti è stato necessario muoversi per incontrare nuovi performer, nuovi tecnici, nuovi musicisti, perché ad un certo punto il giro qui delle professionalità artistiche si era esaurito, per cui ho deciso di spostarmi a Roma, che per i salernitani era una città molto comoda, e lì è partito un nuovo percorso che poi ha portato le cose a svilupparsi così come sono oggi.
Una delle cose più interessanti che abbiamo notato parlando con i partecipanti al laboratorio è stato nel fatto che la gran parte di loro non si conosceva l’uno con l’altro, e questo forse è una spia del fatto che mancano delle strutture di networking anche a livello locale/territoriale. Se è pur vero che magari da un lato bisogna cercare di evitare il “localismo”, inteso come fenomeno di conservazione di una presunta pseudo-tradizione piuttosto che altro, dall’altro credo che questo sia un segnale che fare matching sia complicato anche a livello territoriale-locale.
Be’, si, in realtà io adesso ho una frequentazione e uno sguardo sulla città molto particolare poiché torno molto spesso ma per motivi privati e famigliari e quindi sono sempre in questa sorta di nicchia, credo però che manchi completamente un contesto dove è possibile trasmettere delle energie. Ad esempio adesso sto cominciando a sentire di nuovo parlare delle città perché degli artisti o degli amici o dei registi o dei performer mi dicono che vengono qui a fare degli spettacoli e per me è sempre una grossa sorpresa, ed è proprio in questo modo che ho conosciuto il lavoro di Vincenzo Albano. La questione è che è poi complicato superare quel livello nel quale la tua energia o il tuo entusiasmo o la tua capacità di costruire qualcosa da zero entra in relazione con il tessuto preesistente; penso che la questione sia tutta lì, ovvero una volta individuato il desiderio di riappropriarsi – anche territorialmente – di un’appartenenza, perché questa è comunque la città dove sono cresciuto, diventa molto complicato ri-connettersi ad un sistema perché di fatto questo sistema non so esattamente se non ci sia proprio… ma se non altro è abbastanza arrugginito. So che l’Università fa un lavoro con la coreografia, con la danza, probabilmente anche con il teatro, ma questo lavoro si sposta poi su dei contesti che hanno già una forte identificazione come ad esempio Ravello, dove so che succedono delle cose ma sono cose che hanno un certo taglio. Insomma, è difficile – stando all’esterno – ri-smuovere le acque, ed è per questo che sono assolutamente pronto a costruire qualsiasi tipo di dialogo; credo nella volontà ferma delle persone di reinventare, rifondare e ricontestualizzare tutto e forse l’esperienza mia – e di altre persone – può servire a fare quel passaggio necessario, perché se non ci sono i contesti dove mostrare il tuo lavoro, questo deve poi andare da qualche altra parte per forza di cose. Questa operazione organizzata da Vincenzo – a cui ho voluto partecipare – è una situazione di eccellenza, ovvero è un momento che in un altro contesto verrebbe supportato ad un livello anche basico, ma comunque supportata.
Non fosse altro che metterla in condizione di attivare dei processi di rigenerazione identitaria con il territorio.
Assolutamente, e questi processi identitari con il territorio si costruiscono fecondamente se poi appunto l’onda d’urto coinvolge altre figure professionali, altri lavori; non è soltanto qualcosa legato alla comunicazione e alla distribuzione, ma è una costruzione interna, ed è proprio questo che mi chiedevo, cioè se ci fossero professionalità ricettive e pronte all’ascolto o se siamo tutti un po’ sparsi in giro per l’Italia. Io non lo so, proprio perché vengo qui solo per motivi privati, ma anche sentendo molti amici che magari hanno gallerie d’arte contemporanea o che comunque si occupano di cultura sul territorio, i loro racconti sono abbastanza agghiaccianti.
Li posso comprendere, essendo io stesso di Salerno e avendo a che fare con la realtà territoriale anche in qualità di organizzatore di eventi.
Mentre stavo seduto pensavo «Facciamo un laboratorio!», cioè diciamo che io ho una competenza, una riconoscibilità nazionale, e così via, e proviamo a fare un laboratorio, mettendoci tutto l’entusiasmo del caso, per permettere ad altre persone di mettersi in condizione di creare una rete di relazioni sulla città e sulle persone che sono qui; sarebbe per me molto stimolante, e ho una grande curiosità verso una cosa di questo tipo, anche perché le possibilità che ho io in questo momento sono già relative a quell’altro sistema, ovvero, per me esistono già delle possibilità di produzione e distribuzione, di fare dei contratti, di realizzare degli spettacoli, ma non è questo che mi interessa qui in questo contesto. Se sono qui è proprio per capire se è possibile realizzare un dialogo sulla base del fatto che siamo all’inizio di un’avventura – o almeno io mi sento così – e di un rinnovato interesse verso questo luogo qui, che è il luogo dove per me tutto ha avuto inizio.