Cinema

DestinazioneVacanze. Lo stereotipo come mezzo di trasporto

Fausto Vernazzani

Il giro del mondo in due ore: il cinema e lo stereotipo come mezzo di trasporto prediletto dalle platee di tutto il mondo.

Viaggiare è stato uno dei primi imperativi della storia del cinema. Da un lato abbiamo avuto Georges Méliès sparato dritto nell’occhio della Luna con 67 anni d’anticipo rispetto all’Apollo 11 e dall’altra le visioni esotiche degli operatori spediti in giro per il mondo dai fratelli Lumière. L’attrattiva la possiamo immaginare facilmente e per quanto possa sembrarci assurdo, non molto è cambiato da allora: guardiamo a Spectre girato tra Città del Messico e Roma, le corse a Dubai di Furious 7 oppure le Filippine di Aaron Cross in The Bourne Legacy. Viaggiare è importante.

Quel che i Lumière non avevano previsto è l’importanza produttiva che a volte l’elemento aggiunto di una location straniera può avere: una forza magnetica extra per le nazioni dove i blockbuster sono girati, basti pensare all’ultimo Transformers: Age of Extinction, con gran parte del film ambientato in Cina (e seguente successo al botteghino locale, idem Pacific Rim). Tuttavia quanto è sopravvissuto è stato spesso un elemento, la capacità di teletrasportare lo spettatore in un paese straniero, dargli una chance di confermare le sue credenze: assuefarlo agli stereotipi.

La si potrebbe definire la più grande invenzione del XXI secolo, la creazione del telestraporto. Da sedute in una sala centinaia di persone possono ritrovarsi nell’idea da loro coltivata di Roma, Parigi, Berlino, Madrid, Londra, Tokyo, Pechino, Mosca. Lo stereotipo è la via più rapida verso la fuga dai propri ristretti confini e il cinema come un amante sconsiderato ci ha regalato una carezza e un cenno col capo di accondiscendenza permettendoci di chiuderci anziché aprirci, portandoci ad apprezzare ancor di più prodotti atti al solo scopo di darci in pasto una minestra scaldata.

Ma è la nostra minestra preferita, quella che non richiede alcuno sforzo. Un esempio tra tutti può essere La grande bellezza di Sorrentino, un successo globale, che con la sua rappresentazione stereotipata di una Roma abitata dal tempo passato ha incantato platee internazionali. La Roma eterna attraversata da Toni Servillo nei suoi luoghi più reconditi insieme ai cimeli più conosciuti, non la Roma attuale, una scelta consapevole del regista che calzava a pennello con l’idea dell’Italia degli stranieri: una terra di festaioli scansafatiche immersa nella bellezza più assoluta.

Non a caso è la potenza di Roma, il suo fascino secolare a conquistare il titolo del film e la scena d’apertura. Qualcosa di simile accade con Danny Boyle e The Millionaire, con la sua India povera, girata in lungo e in largo, annegata nella miseria da cui si può uscire solo attraverso la ricchezza regalata da un format televisivo creato, guarda un po’, da quegli stessi inglesi che fino a qualche decennio fa commettevano stragi sulla gigantesca penisola asiatica. Un viaggio rassicurante, senza sorprese, senza grandi riscoperte di un territorio lontano, esotico, misterioso. No, carta conosciuta.

Talvolta l’atteggiamento può raggiungere vette ancor più “insostenibili”, per così dire, se pensiamo a Woody Allen a Parigi con Midnight in Paris, che a modo suo rappresenta questa tendenza con l’utilizzo di personaggi così affascinati dal passato da esser capaci di vivere realmente solo quello. Vuoi l’Owen Wilson protagonista incastrato negli anni ’20 o la Belle Epoque agognata da Marion Cotillard. Ma Parigi non è la patria dell’arte di un tempo così come l’Italia non è più il paese descritto da Rossellini e Visconti. L’idea può esserlo, ma è l’apparenza ad esser sopravvissuta nella mente di molti.

Può rivelarsi a volte un danno, come capita in prodotti di seconda mano come Mangia prega ama, ma non sempre, come nei casi succitati, il risultato è sporcato da un’eccessiva superficialità – nel caso di Woody Allen, in un certo senso desiderata -, a una grande bellezza non si può togliere il tocco di Sorrentino e a Boyle il pathos. Le storie possono beneficiare dello stereotipo, ma il viaggio ne esce sempre con qualche contusione e varie emorragie: distrugge la realtà, il sogno inficia la verità e la voglia di scoprire. Porta il pubblico più mansueto a chiudersi a riccio nella finzione.



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