Dellamorte dellacritica (parte I)
Dal cinema alla letteratura, si urla alla morte dei critici. Ma in realtà sono solo cambiati (e cresciuti di numero).
Su Le parole e le cose parla – tradotto – Martin Amis, a proposito di critica, talento e democratizzazione. Cioè: niente di nuovo. Lui, saggista e studioso noto anche per i suoi romanzi, decreta che la letteratura è materia “accessibile” (nel suo linguaggio, nel suo codice), al contrario del greco o della chimica, e per tal ragione destinata ad essere democratizzata. Dice anche che un libro, per quanto possa essere mediocre, ha sempre del lavoro dietro, e condanna il livore dei vecchi criticoni dal bavero alto, perché con le loro stroncature non fanno altro che “giocare a fare i giovani”. Infine, propone il suo metodo definendolo l’unica vera arma a disposizione di chi fa critica o ci prova: la citazione. Grazie a quella, qualsiasi discorso de rerum letteratura smetterà di apparire aria fritta e acquisirà inconfutabile evidenza scientifica: il testo starà al critico – tale o presunto – come il corpo al medico durante la sua lezione di anatomia.
È solo apparente il paradosso di una società da social, luogo di diffusione e produzione di testi per antonomasia, letterari e non, avvezza a troll e insulti da tastiera, che sia così tanto terrorizzata dalla critica e le sue stroncature – perché il disprezzo per la categoria non ha tempo, checché ne dicano le memorie corte – al punto da dichiararla morta. Non lo è, invece, quello che ha per protagonisti critici ostili alla categoria stessa cui appartengono. In entrambi i casi il punto, o uno dei tanti, sta nel narcisismo: la democratizzazione, che ha condotto all’inflazione, ha massificato anche e innanzitutto la possibilità di una ribalta, di un pulpito. E di salire di livello. Perché quel “voglio di più” alla base di tutto, a partire dalle fondamenta del sistema produttivo, ha investito – com’era logico e per certi versi giusto che fosse – anche le gerarchie professionali, slabbrandone i confini. E dopo che qualcuno hai detto “tu puoi tutto”, in nessun modo (e in nessun mondo) sarà possibile rimangiarsi la parola, revocare il diritto. Pure perché, ed è un dato di fatto, non serve davvero altro a parte una tastiera, un blog e la convinzione di sé – oltre al libro, naturalmente il libro; ma anche soltanto due pagine bastano.
Quindi, in vena di ripetizioni, ripetiamo ancora: bisogna relativizzare. E a questo una citazione serve quel tanto che basta. Perché come per il greco e le reazioni chimiche, al di là delle peculiarità d’accesso, anche per la critica vale lo stesso codice: la preparazione. Lo studio, l’aggiornamento profondo, costante, infinito. Senza metodi, né critici, che possano dirsi più legittimi e funzionanti di altri, chiudendo il cerchio del narcisismo di cui sopra. Un metodo ottimo – e cioè verificato dal Tempo – sta nel confrontare tutti i metodi possibili; anche quelli falliti o fallibili. Altrimenti si sta qui a dire che la critica è morta soltanto per poter dire “ma io no”. E invece di critici, mai come adesso, è pieno il mondo. Ma, com’è sempre stato, esistono quelli bravi accanto a coloro che non lo sono. La differenza? Sta nel modo in cui, di un testo – che sia una citazione o meno – si sa restituire una versione. Che se attua una trasformazione interiore compie quello che della critica è uno dei compiti più alti; se spinge solo a comprare, ma non a convincersi, ha fatto comunque il suo lavoro. E se sa solo dire è bello o è brutto convince, sì; ma non rimane.
Nella critica, forse di più che altrove, spesa e guadagno si equivalgono, e il risultato pesa quanto ciò che l’ha creato.