Debutta a FESTIL “CristÒtem” di Elvira Scorza: tradire il mito per ritrovare se stessi. Intervista all’autrice e regista
A FESTIL_Festival estivo del Litorale, la sesta edizione diretta da Alessandro Gilleri, Tommaso Tuzzoli, e Katja Pegan, va in scena in prima assoluta oggi 29 e domani 30 giugno, nella Sala Beethoven di Trieste e, in collaborazione con Teatro Contatto Blossoms/Fioriture, al Teatro San Giorgio a Udine, CristÒtem, uno spettacolo prodotto da Golden Show di Trieste, Tinaos e L’Effimero Meraviglioso. Firmato da Elvira Scorza, drammaturga e regista Under 30 formatasi alla Scuola del Teatro Stabile di Torino per poi passare in finale al prestigioso bando della Biennale College registi 2020, CristÒtem vede Noemi Grasso e Alessandro Pizzuto dare voce a una riscrittura del mito di Ifigenia. Crisotemi, protagonista dello spettacolo, è la sorella di Ifigenia, Oreste ed Elettra; ma se gli ultimi tre hanno ricoperto dei ruoli drammatici che hanno fatto la storia delle grandi tragedie, di Crisotemi, il mito sembra smarrire le tracce. Nello spettacolo di Elvira Scorza, il mito viene tradito per restituire a Ifigenia un destino diverso, un’altra rilettura, che recupera dal tragico gli antieroi cercando in questi una forza reazionaria. Abbiamo intervistato l’autrice e regista.
Perché scegliere di rileggere il mito di Ifigenia nel 2021?
Il mito di Ifigenia è in realtà un punto di arrivo nella mia riflessione, che parte dall’interesse di trattare le saghe come quella degli atridi, di Edipo, dei Lai; le storie, insomma, di queste grandi famiglie “disagiate”, in cui ci sono però delle trame che ritornano e dei modi di raccontare il disagio che alla fine hanno fatto anche la storia della letteratura. Questo è secondo me il motivo per cui i miti hanno per noi interesse. Riscrivere il mito per me vuol dire essenzialmente cercare delle risposte a delle domande vive: il mito di Ifigenia racconta di una figlia che si relaziona a un padre incapace di amare, incapace di far valere il proprio amore per la figlia. Suo padre, Agamennone, assume un ruolo politico e tutti gli obblighi che questo ruolo ha per lui, quando sceglie di sacrificare, in tutti i sensi, questo rapporto con la figlia, e lo fa in virtù di un obbligo politico che lo tocca anche dal punto di vista dell’interesse personale: questo è il nucleo centrale che mi scuote, del mito di Ifigenia. C’è una figlia che si relaziona a un padre e alla sua incapacità di stare nel ruolo genitoriale, ma soprattutto, una figlia che, a un certo punto, nel mezzo del pianto, della disperazione e della paura, cambia in maniera netta idea ed è quasi lei a convincere il padre ad attuare questo sacrificio. Ciò mi ha portata a chiedermi “ma perché lo fa?”. Così ho riflettuto su quali sono i meccanismi che si innescano nel momento in cui una figlia, una donna, si trova di fronte a dei doveri patriarcali, perché comunque sono portati avanti da un gruppo di uomini; si parla della difesa di un ruolo virile, un ruolo da combattente, e della difesa di una serie di strutture che vengono incarnate nel mito e nelle tragedie da questo padre. Perché questa figlia a un certo punto dice di sì? Perché decide di essere una eroina? Potrebbe, invece, stare semplicemente nella paura e avere un’idea diversa di narrazione, di “rivoluzione” anche, mi verrebbe da dire: tutti i gesti, piccoli o grandi che siano, fanno il mondo e, magari, tutti i gesti lo possono cambiare.
Attraverso quali mezzi il mito viene introdotto nell’azione scenica?
Il tradimento del mito è il punto di partenza nella mia esigenza di pensare uno spettacolo, nella domanda – o nella ferita – che mi porta a dire di voler scrivere. Soprattutto, CristÒtem direi che è stata la matrice per la drammaturgia. Non solo per la scrittura e consequenzialmente anche per la scrittura registica e scenica, ma anche per la drammaturgia sonora e visiva, spaziale. Il mito entra nell’azione scenica grazie al lavoro di scrittura e di tradimento che fa la parola e anche grazie al lavoro che Filippo Conti fa per quel che riguarda i suoni e le atmosfere sonore; che fa Umberto Camponeschi per quanto riguarda le luci e il lavoro sulla costruzione di specifiche atmosfere, insieme a Rosita Vallefuoco che firma la scenografia dello spettacolo. Sono questi i mezzi attraverso cui il mito entra nell’azione scenica, chiaramente veicolato dall’interpretazione degli attori Noemi Grasso e Alessandro Pizzuto. Insieme, noi tutti siamo partiti affrontando il mito con le nostre specificità. Un lavoro di creazione che ha attraversato il mito e lo ha fatto in maniera abbastanza chiara, ovvero “tradendolo”. Ognuno a suo modo. Ci siamo interrogati a lungo su quale fosse il punto del mito che ci toccasse più di tutti, e credo fosse la narrazione che il mito porta. La struttura narrativa che il mito ha aperto nella nostra cultura occidentale, le storie che esso racconta e che hanno poi portato ad avere dei valori da tradire o meno. Nel caso specifico di CristÒtem, da “tradire”, appunto.
L’etimologia del nome di Crisotemi influisce sullo spettacolo delineando in un modo del tutto nuovo il concetto della cosa giusta da fare. Cosa s’intende per “cosa giusta”?
La “cosa giusta” da fare non esiste: è questa impossibilità che ha guidato il mio lavoro di riscrittura. Per quanto mi riguarda, il punto che mi commuove di più del mito di Ifigenia è proprio il cambio netto di prospettiva che lei ha, da “ragazzina” scossa dalla paura, tremante, che implora il padre di non sacrificarla a “donna” pienamente cosciente che sceglie il sacrificio e che, anzi, quasi si consegna, con fare anche molto autoritario, alla “cosa giusta” da fare. Quello che io credo sia da rompere è proprio l’idea che esista una “cosa giusta”. Quello che io contesto al mito, ovvero il mio punto di tradimento del mito, è che la cosa giusta non esiste. Ed è pericoloso pensare che esista una cosa giusta, perché ci porta ad essere degli automi bipolari e binari: o “sì” o “no”, o “tutto” o “niente”; o “mi sacrifico per quei valori che mio padre difende per ai quali ha votato la sua vita” oppure “rinnego tutto”. La nostra Crisotemi parla di questo: non c’è salvezza né cosa giusta da fare perché il presupposto da cui si parte è semplicemente sbagliato. Esiste il fatto di stare nella coerenza con quello che si è, il chiedersi di volta in volta di fronte a ogni singola azione quotidiana, a ogni singolo valore, se veramente ci crediamo. Mettendolo in dubbio, contestandolo. La cosa giusta viene intesa come “messa in dubbio” ideologica, e narrativa anche, perché la letteratura è piena di eroi che fanno la “cosa giusta” a discapito di se stessi. Io mi permetto di dire invece che la cosa giusta non esiste: ciò che esiste è la persona di fronte al bivio e le domande che si pone. Stare in quello che si è, è l’unica cosa da fare. Che sia giusta o sbagliata è un’idea troppo facile da attuare. Difficilissima da portare avanti.
Dopo CristÒtem ci sarà il primo incontro del ciclo intitolato “Indagare il tempo: teatro e sociale in dialogo con il presente”, gli interpreti dialogheranno con la dott.ssa Giusy Guarino, psicoterapeuta della Coop Athena città della psicologia. Come si coordinano secondo te tra loro oggi il tema del sacrificio, della vendetta, della redenzione e della morale?
Sono tutti temi che presuppongono una messa in gioco abbastanza binaria dell’essere vivente, che richiedono una devozione totale a un’idea che guidi poi le azioni. Il punto di unione credo sia proprio credere che esista una cosa giusta da fare e farla, in maniera anche abbastanza cieca, forse. In realtà sacrificio, vendetta, redenzione e morale sono luoghi di passaggi dell’io che si interroga sulla possibilità di essere coerente, non tanto con se stesso, ma con un’idea giusta del sé. Sono tutti luoghi in cui spesso l’io si perde, luoghi di riflessione dell’uomo su se stesso e sul proprio funzionamento, pieni di domande legate al “qual è la cosa giusta da fare?”. Tra questi, la redenzione mi viene da qualificarla in modo diverso rispetto agli altri, forse per una mia propensione a vedere del marcio negli altri, per quanto poi anche io sia contraddittoria, perché appunto non c’è una cosa giusta o sbagliata, a mio avviso, nel credere al valore del sacrificio, della morale e della vendetta. Il pericolo, per quanto mi riguarda, è vederli concatenati, come strade certe da battere. CristÒtem vuole proprio mettere in dubbio questo e indagare che storia può venire fuori nel momento in cui cambiano i valori messi in gioco; ma, soprattutto, cambia questa scelta netta, la divisione, definizione, di queste idee. Ciò che le accomuna è la persona, i modi attraverso cui una persona cerca di essere nel giusto. Mettere in dubbio questa idea di giusto è quello che fa crollare tutti e quattro questi capisaldi di pensiero. Non hanno niente di negativo in sé, ma spesso sono usati per annullare alcuni punti di contraddittorietà dell’uomo che sono da sempre presenti e che forse, in questo specifico periodo storico, stanno emergendo con una drammaticità non indifferente.
[Immagine di copertina: foto di Giacomo Zito]