Davide Livermore // “Maria Stuarda”
Dal 6 al 10 dicembre, al Teatro di Napoli Mercadante, è andato in scena, per la regia di Davide Livermore, lo spettacolo Maria Stuarda, una produzione congiunta di Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino e Centro Teatrale Bresciano. Lo spettacolo, tratto dal romanzo ottocentesco di Friederich Schiller, racconta del rapporto tra Maria Stuart, cattolica regina di Scozia e sua cugina Elisabetta I, regina protestante d’Inghilterra e d’Irlanda, interpretate da Laura Marinoni ed Elisabetta Pozzi, mettendo in scena la relazione tra le due donne – un rapporto che sfocia nell’uccisione della regina di Scozia per volere della sovrana d’Inghilterra – e scandagliando a fondo la personalità di entrambe, portandone in luce peculiarità e zone d’ombra.
Le interpreti vestono costumi di Dolce & Gabbana, abiti che ben rappresentano l’identità delle due protagoniste. Maria ne indossa uno ricoperto di fiori che racconta la femminilità di una donna che non ha rinunciato a vivere i suoi amori, seppure talvolta illegittimi, mentre Elisabetta veste un abito scintillante: ostentazione del potere di una sovrana che incarna la dicotomia antica, e insieme contemporanea, dell’essere donna di potere, regnante senza consorte e per questo fiera di governare come un uomo, senza un uomo. Eppure la storia non esenta la regina d’Inghilterra dal subire la pressione del popolo che la vuole sposa e per questo affiancata da un “padrone” che la riduca ad essere, infine, soltanto una donna. Questa contrapposizione in scena è però soltanto apparente in quanto risolta in una precisa scelta registica di invertire di sera in sera il ruolo delle due interpreti e di confondere quindi l’identità femminile con le dinamiche maschili del potere. Intorno alle due regine gravitano forze che determinano il motore della pièce: la religione, la politica, la passione, la giustizia; dinamiche incarnate da servitori, funzionari e amanti. Ciascuno di essi rivela i chiaroscuri dell’animo umano, come Anna, fedele nutrice di Maria, Leicester amante opportunista di quest’ultima, Paulet saggio e giusto custode di Elisabetta e Mortimer, nipote di Paulet, che svela invece dinamiche di possessività, malcelate da un’apparente devozione alla regina di Scozia. Nella regia di Livermore, il romanzo ottocentesco si intreccia con elementi contemporanei, perché ciò che attiene al potere e alla lotta per la sua affermazione affonda le radici nella storia dei secoli ed arriva immutato fino a noi. Da qui la scelta di attualizzare la linea dei costumi (curati da Anna Missaglia) con abiti in pelle ed austeri tailleur e soprattutto attraverso l’intervento della musica rock suonata dalla chitarra di Giua. Le note della chitarra elettrica accompagnano l’intera rappresentazione, tramutando in vibrazioni i tumulti dell’animo dei personaggi: sentimenti ben rappresentati da dialoghi profondi e serrati che scandiscono tre ore di spettacolo. La drammaturgia però sembra ad un certo punto ruzzolare verso il finale quando la situazione precipita ed Elisabetta, ancora una volta sotto la pressione del volere del popolo, placa la sua ansia e, come Pilato, firma la condanna a morte di un’innocente. L’innocenza di Maria viene infatti dimostrata solo a fine spettacolo e solo dopo che la sentenza ha avuto esecuzione. Ciò non lascia scampo a Elisabetta, che resta sola in preda al rimorso e alla disperazione. Prima di morire, però, Maria invoca il perdono per la sua carnefice e ad essa appare ancora una volta in una splendida veste rossa, simbolo di una morte violenta, sebbene ricoperta dalla tunica bianca del perdono. L’armonia al servizio della poesia che il regista afferma di voler ricreare all’interno della propria drammaturgia attraverso l’intervento della musica, è qui contemplata e completata dal risanamento del conflitto tra le due protagoniste e da una pacificazione assolutoria che rivela la miseria e insieme la profondità di cui l’animo umano può essere capace.
[Immagine di copertina: foto di Alberto Terrile]