Danza: a che punto siamo con la ricerca (di virtuosismi)?
L’immaginario comune ci ha abituato a pensare che un danzatore virtuoso debba essere portatore di determinate caratteristiche fisiche e tecniche: un corpo longilineo e armonico in grado di sostenere l’equilibrio del suo baricentro in condizioni avverse o elevazioni aeree, e di rotare i legamenti degli arti inferiori, dalle anche alla punta dei piedi, per aperture mozzafiato. Alcuni dei lavori visti negli ultimi mesi, però, ci conducono per mano lontano da tutto questo e ben oltre, quindi, i canoni estetici accademici; naturalmente, si è trattato di una “liberazione” non istantanea, ma che oggi si potrebbe inquadrare come un “ribaltamento” vero e proprio degli stessi.
A Santarcangelo festival, per esempio, abbiamo visto R. OSA_10 esercizi di nuovi virtuosismi di Silvia Gribaudi, coreografa fresca di nomination alle finali del Premio Rete Critica 2017. Il percorso di Gribaudi è esemplare sotto certi aspetti: è stato segnato da esperienze che le hanno permesso presto di affrancare le sue creazioni dagli esordi di stampo accademico e dagli stereotipi legati al mondo della danza, per incanalarsi verso una linea artistica più ironica, in parte contaminata dal circo-teatro. Il corpo che Gribaudi fa danzare è infatti visto come un “corpo libero” sia dal punto di vista tecnico sia ontologico: un corpo libero di “essere”. Così, infatti, è la presenza di Claudia Marsicano in questo lavoro che la vede unica protagonista in scena, attrice-cantante oversize, nonché finalista al premio Ubu 2016 come Nuova attrice Under 35. Tra teatro, danza e spettacolo, la venticinquenne Marsicano, in body azzurro, non nasconde le pieghe più morbide della sua carne e in una successione di numeri dà prova delle sue molteplici e straordinarie abilità, canore e fisiche, che fanno di lei una donna di spettacolo a tutto tondo. Gribaudi, con intelligenza e creatività, esalta la meravigliosa flessibilità dei muscoli di quel corpo tanto morbido e sicuro delle sue forme, malleabile come la plastilina, il cui linguaggio spazia dal fitness al cabaret al teatro di figura, fino ad accennare passi di danza classica accademica. Già valente attrice, Marsicano è qui, insieme, una Venere contemporanea e una maschera comica dalle sorprendenti possibilità espressive.
Da Kilowatt festival a Sansepolcro, dove abbiamo conosciuto la giovane e coreografa e performer Olimpia Fortuni, apprendiamo un’altra forma di virtuosismo: un virtuosismo metamorfico. L’inafferrabilità delle immagini fluide che Fortuni offre allo sguardo si esplica a partire dalla scelta del non-titolo del suo spettacolo che pare omaggiare l’artista René Magritte: Soggetto senza titolo. La peculiarità del suo stile consiste infatti nella costruzione di visioni che mescolano natura e contesto urbano senza soluzione di continuità, in cui le linee sinuose del corpo si fondono con il costume, una felpa con cappuccio, per tradurre l’intenzione di essere “altro”, un geco sul fondale luminoso della scena, oppure, nella nudità primordiale del suo essere, uno scimpanzé, un elefante che attraversa lo spazio camminando leggiadra su mani e piedi. In una ricerca quasi a tentoni, Olimpia Fortuni prova – e riesce – ad afferrare l’impalpabilità di una suggestione onirica ricercando in una forma mutante e mai congelata in uno stile unico impressioni che riguardano la storia dell’evoluzione della specie umana.
Quest’ultima e il suo rapporto complesso con la natura è al centro anche del lavoro di un’altra giovane compagnia incrociata negli ultimi mesi: Equilibrio Dinamico, che dalla Puglia ha attraversato l’intera penisola per raggiungere le incantevoli Valli del Natisone, in provincia di Udine, dove si è tenuta la seconda edizione di Through Landscape, progetto di residenze artistiche di cui parleremo ancora, che ha dato la possibilità ad artisti italiani e stranieri di gettare le basi per nuove future produzioni. Gli Equilibrio Dinamico hanno, infatti, realizzato una prima bozza di Home Sweet Home, ideato e diretto da Riccardo Lanzarone e Roberta Ferrara. Suddiviso in due parti, lo spettacolo mescola teatro, danza, parola e video. Riprendendo alcuni anfratti del paesaggio del Comune di Stregna, l’ambientazione naturale entra prepotentemente in sala attraverso uno schermo in PVC e contrasta radicalmente con la scena di un interno dominato da un soggetto sclerotizzato, al quale a sua volta fa da contrasto un pesce rosso chiuso nella riproduzione fittizia di un fondale marino dentro una piccola teca in vetro. La coreografia di Roberta Ferrara gioca sulla dialettica tra dentro e fuori, natura e artificio, reale e virtuale, per disegnare la parabola di un corpo che, costruito dalla società, prova a ritornare gradualmente a una dimensione pre-culturale. È in questa modalità d’approccio che avviene un ribaltamento significativo del gesto coreografico virtuosistico, che consiste, si potrebbe dire, nel cercare l’errore, la fatalità, ovvero, detto in termini coreutici, la caduta violenta e incontrollata del corpo, lo schianto al suolo. L’unico performer fisicamente presente in scena, Gianfranco Scisci, cammina infatti incrociando le gambe e tenendo il peso sul lato esterno della pianta dei piedi, cioè come non è dato di fare per mantenere la posizione eretta. Ogni caduta produce un tonfo e uno spostamento di materia, come ad esempio un mucchietto di rami secchi disposti al centro della scena, a ricordare, analogamente al pesce nell’acquario, il dominio dell’uomo sulla natura e il paradossale disagio, al contempo, avvertito nello stesso ambiente da sé plasmato. Mediante quelli che sono dei riverberi scenici di una natura strappata al suo contesto di appartenenza, specchi di dimore, o meglio “gabbie”, in cui si rinchiude un’esistenza artificiosa e schizofrenica, l’uomo tenta di riaffermare la presenza di una madre natura sottomessa, ma proprio mentre lo fa, sembrano dirci gli Equilibrio Dinamico, dichiara della civiltà e del progresso il loro fallimento.
Un virtuosismo diverso è invece quello del ColletivO CineticO che, tra altre valli e monti, sul versante opposto e occidentale, al Drodesera festival che ha invaso durante la seconda metà di luglio la Centrale FIES Artwork Space di Dro (TN), ha portato in scena Sylphidarium, un omaggio implicito al mondo della danza che evoca come primi segni di spiazzamento un immaginario lontano e dai contorni sfumati. Il collettivo ferrarese vincitore di numerosi riconoscimenti (si segnalano tra i più recenti, il Premio ANCT – Associazione Nazionale Critici di Teatro 2016) parte dal celebre balletto per rielaborare il senso rivoluzionario che La Sylphide nelle sue diverse rappresentazioni (Filippo Taglioni, 1832, Bournonville e Michail Fokine, 1909) ha rappresentato per le rispettive epoche. Nel 1832, infatti, la danzatrice Maria Taglioni, figlia di Filippo, inaugurò un nuovo corso per la storia della danza occidentale introducendo l’uso delle scarpette a punta ancora oggi associato all’agilità dei piedi e alla levità del danzatore classico; ma oltre alla novità linguistica (questo balletto è anche il primo in cui fu utilizzato il tipico tutù) coesiste il tema dell’eros, del desiderio irraggiungibile tra un uomo e una creatura fantastica dei boschi che può essere consumato soltanto nel sogno. Su un palco coperto da un telo bianco che forma una morbida curva sul fondale, i performer sfilano come su una passerella in abiti in latex, tigrati o dal dichiarato gusto kitsch (non è kitsch, forse, la stessa fantasia del gonnellino scozzese, indossato dal protagonista, James, nel balletto? – qui simbolicamente indossato all’inizio da Francesca Pennini). La Sylphide, figura leggera contraddistinta da ali, diviene qui elemento strutturale della performance, che viene così eseguita in modo atletico, quasi agonistico, con ai piedi non le scarpette a punta, ma sneakers e guantoni da boxe. Il potere erotico della mitologica creatura rappresenta una virtù che si fa danza, movimento sensuale e ammaliante, viscerale e impulsivo, proprio come il linguaggio di questa riscrittura contemporanea di CollettivO CineticO, in cui viene sfoggiato un virtuosismo “erotico”, fondato sulla forza fisica e animalesca del bacino, sulla resistenza muscolare, la tensione e il controllo del corpo, che si ferma in delicati equilibri verticali sulle braccia sfidanti la gravità in senso diametralmente opposto ai modi dell’eteree danzatrici nel balletto classico. Non pas des trois ma ménage à trois, dunque, accanto a suggestioni che richiamano alla mente i grandi maestri della scena contemporanea europea: dalle ampie gonne amate da Jiří Kylián a una pausa in stile dejeuner sull’herbe in cui i performer mangiano pop corn nudi e seduti a terra; scena che ha lo stesso potente effetto dei danzatori di Jan Fabre scenicamente presenti anche se in pausa a fumare in un altro bellissimo omaggio alla danza e al teatro tutto che è The power of theatrical madness (1984), ripreso nel 2013 e andato in scena anche al Romaeuropa Festival (proprio stasera 30 settembre e domani 1 ottobre, invece, sarà in scena al Teatro Argentina sempre per Romaeuropa Festival il suo nuovo Belgian Rules).
Sempre al Drodesera festival, andato in scena anche recentemente a Short Theatre a Roma, non meno incisivo, pur essendo legato a un impianto concettuale, CHROMA_don’t be frightened of turning the page di Alessandro Sciarroni, parte di un progetto articolato, dal titolo TURNING_, sviluppato nel triennio 2013-’15 iniziato con Migrant Bodies. Partendo dall’osservazione di alcuni fenomeni migratori di cui sono protagonisti alcune specie animali che al termine della loro vita tornano a riprodursi e a morire nel luogo dove sono nati, Sciarroni ha iniziato a esplorare in variazioni coreografiche il modulo della “rotazione” attorno al proprio asse, che nell’inglese turning assume un significato più denso e stratificato, inerente al cambiamento e alla mutazione. In CHROMA_Don’t be frightened of turning the page, lo spazio scenico è un quadrato circondato interamente dagli spettatori, e la ricerca sulle possibilità formali di rotazione del corpo umano su se stesso, anche qui, non segue norme accademiche sul controllo visivo di un punto fisso unico nello spazio, ma incontra strade alternative a livello percettivo per raggiungere il medesimo obiettivo, straordinario, nel tempo. Una ricerca che, diversamente ancora, dalle consuetudini accademiche – per tornare all’origine del nostro discorso – non dissimula la fatica, ma la sbeffeggia. Attraverso sorrisi e ammiccamenti, infatti, Sciarroni comunica allo spettatore la consapevolezza interiore di un virtuosismo esemplare e non manieristico, che sonda, svela, l’impercettibile linea di confine che per un corpo ben addestrato separa la precisione dell’esecuzione dalla sua perdita di controllo. E così, da virtuoso quale è, cerca il rischio e sfiora la possibilità del fallimento a pochi centimetri di distanza dal suo pubblico, sorprendendo nell’efficacia della sua dimostrazione che, fino alla fine, riesce a non soccombere alle inflessibili e spietate leggi della fisica.