Cultura o entertainment?
Cultura o intrattenimento? Molto spesso, chi dice di far la prima, in realtà fa la seconda, in un circolo vizioso di ambiguità che è giunto il momento di sradicare…
In questi giorni mi sono trovato a sfogliare le pagine web di un noto festival cinematografico italiano, la cui edizione 2014 sta per iniziare, constatando come per il primo anno in assoluto, dopo anni di declino autoriale sempre più evidente (ma non di appeal verso il pubblico!), non ci sia neanche una personalità che vi partecipi al quale sono interessato, per una serie di ragioni più o meno differenti. La principale di queste è la scelta, compiuta appunto dal suddetto festival in questi ultimi anni, di aver concentrato la gran parte dello sforzo organizzativo in una serie di eventi dal facile richiamo, soprattutto da parte di un pubblico giovane (15-25?), che poi è il target principale della manifestazione, concentrandosi su attori/attrici di serie tv più o meno famose o più o meno importanti, e riempendo i buchi con modelle, attori bellocci e similari (per onestà di cronaca va detto che qualche – molto poche, in realtà – personalità autoriale c’è, anche se per una serie di ragioni diverse non interessanti per il sottoscritto). Poiché il rischio di cadere nello snobismo e nell’intellettualismo è presente, sgombero subito il campo dicendo che è una scelta più che legittima, che non deve in alcun modo essere disprezzata, giacchè eventi come questo hanno la grande capacità di rivitalizzare territori, creare indotto economico e valore aggiunto nell’area dove si svolgono, e danno la possibilità a giovani e meno giovani di “incontrare” i propri idoli e i propri modelli di riferimento.
Niente di male, dunque. E allora perché scrivere quest’editoriale? Perché il problema nasce nel concetto di legittimazione culturale. Fare un evento per il pubblico, sulle nuove tendenze giovanili, che proponendo nomi nazionali ed internazionali di grande appeal verso il suo target, fornisce spunti di lavoro in senso sociologico/antropologico, sull’analisi dei gusti e sul cambiamento degli stessi, soprattutto per le fasce adolescenziali/giovanili, non basta. In Italia cerchiamo e facciamo in modo tale da dare al nostro evento una legittimazione culturale anche quando quest’ultima non ha senso di esistere, senza che sia questo una cosa negativa. Perché chi fa cultura solitamente propone un discorso, che è anche un discorso di scoperta, non dà al pubblico ciò che si aspetta (o almeno, non solo); perché propone uno standard qualitativo con un’asticella più o meno alta, ma esistente. Proporre cose qualitativamente scarse non è cultura ma intrattenimento, che ha una funzione sociale importantissima, ma che tale è. Tutto è cultura, e quindi nulla è più cultura, tutto è opinabile in categorie come “gusti”, “punti di vista” e quant’altro, e i contorni diventano sempre più sfocati.
E allora iniziamo a liberarci dell’ambiguità del termine culturale, associato a qualunque cosa sia legata alle “arti”, siano esse performative o il cinema o la musica o altro: smettiamola di chiamare film pensati, concepiti e realizzati per l’intrattenimento come “film d’interesse culturale” condannando quelli sì, davvero d’interesse culturale (negli ultimi mesi Piccola Patria, Zoran – Il mio nipote scemo, Still Life, Bellas Mariposas, ecc.) a cinema scalcinati e sale di nicchia – perché tanto non fanno pubblico. Iniziamo ad insegnare, a partire dei giovani, che la qualità è oggettiva e il gusto è soggettivo, sempre, senza eccezioni. Guidiamoli, nei nostri eventi, in un percorso che aumenti la loro consapevolezza culturale, e che li arricchisca culturalmente, e non limitiamoci a fargli incontrare delle star di prodotti scarsamente culturali. Altrimenti fate intrattenimento: benissimo, ma capiamoci bene allora, e chiariamolo una volta per tutte.
Se volete che il vostro festival sia culturale, dovete fare cultura. Sembra lapalissiano, ma a pensarci un attimo e a guardarsi attorno, non lo è.