Arti Performative Mutaverso Teatro

“Cosa vogliamo dall’altro?”: intervista a Vico Quarto Mazzini, in prima regionale con “Vieni su Marte” a Mutaverso Teatro

Maria D'Ugo

Hanno debuttato nel giugno dello scorso anno al Festival delle Colline Torinesi, passando per i Teatri della Cupa leccesi, il Romaeuropa Festival della capitale e il Teatro i di Milano, e ora arrivano nella stagione Mutaverso Teatro per portare anche a Salerno, in prima regionale, la prospettiva di un biglietto direzione Marte. Abbiamo resistito alle incognite delle gallerie e delle montagne dell’Irpinia, che hanno provato più volte a disturbare e a far saltare la linea, per prenderci il tempo di fare una chiacchierata telefonica con Gabriele Paolocà, attore della compagnia Vico Quarto Mazzini, nonché autore di Vieni su Marte (spettacolo fra l’altro inserito tra i dieci spettacoli memorabili del 2018 secondo Scene Contemporanee), e regista insieme all’altro interprete che lo affiancherà questa sera in scena, Michele Altamura.

Vico Quarto Mazzini, una compagnia che è in attività dal 2010. Indipendente, ma anche un po’ nomade, giusto?

Io di mio sono di Roma, ma di una categoria strana, uno che ha fatto l’immigrazione al contrario, l’immigrazione al sud. Infatti quando parto da Roma sono sempre solo sull’autostrada. Lo stesso nome della compagnia è “nato dal sud”, perché praticamente i paesi in provincia di Bari sono strutturati principalmente su delle vie principali, che hanno nomi risorgimentali, da cui poi partono piccole arterie che si chiamano “Vico primo”, “Vico secondo”, “Vico terzo”, “Vico quarto Mazzini”. Vico Quarto Mazzini è stato il primo monolocale dove all’inizio abbiamo vissuto tutti insieme. Quando era ancora una comune hippie, praticamente: un bel po’ di persone in venti metri quadri, un’esperienza talmente formativa che dovevamo proprio lasciarne il ricordo. Il motore che ci ha spinto giù è stato un bando che abbiamo vinto, indetto dalla regione Puglia, ma anche perché lo stesso Michele Altamura, della compagnia, è pugliese. Da lì abbiamo trovato le prime risorse per campare (o provarci, a campare d’arte, sempre provarci), poi la Puglia costava poco, c’era il marmo, quando arriva la primavera non pensi a nient’altro: insomma, andava bene così. Ai tempi la Puglia ha investito molto sulla politica culturale, si respirava una bella aria. Ora principalmente ci viviamo, e lavoriamo altrove. Un progetto gigante su I fratelli Karamazov è stata l’ultima cosa che abbiamo fatto sul territorio, ci sono molte battaglie che vanno combattute giù, però noi ci stiamo provando, anche se ci interessa comunque, e in verità ci ha sempre interessato, molto di più fare un lavoro sulla nostra poetica che sul territorio. Sì, in questo siamo nomadi, ma anche perché c’è questa aspirazione a voler essere cittadini del mondo, abbiamo studiato fuori e avuto molte collaborazioni con realtà non pugliesi, ma in fondo è una scelta politica, che riguarda il non attecchirsi in dinamiche locali, perché ci farebbero sentire subito arrivati, finiti, e lo dico nel senso etimologico del termine. Per ora ci interessa avere sempre uno sguardo verso il fuori, anche per non morire a livello creativo e artistico. Poi, c’è quella che forse sembra una banalità, ovvero che entro ognuno di noi c’è un universo, un concetto che si può sviluppare in un milione di modi: a volte una storia che parla del nostro “circostante” è molto più universale di una che magari racconta dell’Europa degli ultimi settant’anni; però, al contempo, il rischio di una cultura come la nostra, italocentrica, è che si resti provinciali. Io invece appena posso me ne vado a vedere uno spettacolo a Londra o a Berlino. In questo cerco sempre di mantenermi vivo, però è anche una mia esigenza personale, un mio essere inquieto.

“Vieni su Marte” di Vico Quarto Mazzini. Foto di Francesco Tassara

Ti propongo un gioco. Prova a metterti nei panni del critico. Se tu guardassi al vostro spettacolo Vieni su Marte da fuori, da spettatore, che cosa mi racconteresti? Che cosa vediamo?

Innanzitutto è uno spettacolo che ruota attorno a una domanda semplice, che è quella del: cosa vogliamo dall’altro? Che sarebbe in fondo “cosa vogliamo da quello che ci circonda?”. È una domanda che nasce dalla costante voglia di essere sempre fuori da noi stessi. Per questo si appoggia sulla metafora di “Mars One”, un progetto folle che prevede la costruzione di questa colonia umana su Marte, formata da persone comuni (follia ancora in piedi, stanno solo rimandando la data). Hanno indetto un concorso in cui la candidatura consiste nel mandare un video di un minuto. Noi questi video ce li siamo visti, e ce ne siamo visti a centinaia perché sono sul loro sito. Da lì si è sviluppata la domanda: da dove parte questa inquietudine del dover sempre trovare un qualcosa al di fuori di noi? Anche noi ne abbiamo discusso un sacco, dicendoci che in fondo anche uscire fuori di casa la mattina è un po’ emigrare da un luogo. Devo dire che è una riflessione che ci accompagna da sempre e da sempre ci muove nel nostro viaggio. Ci sembrava un tema che potesse essere davvero contemporaneo, nel momento in cui oggi si parla di popoli che si muovono e di autoritarismi nazionali che nascono, ma che comunque ci sembrano a volte sempre complemento oggetto della stessa frase: da cosa ce ne vogliamo andare? Questo lavoro parla di tutto questo.

Come si è sviluppata la ricerca, in che modo?

All’inizio, in verità, c’era la voglia di parlare delle fake news e della finzione delle post-realtà che ci accompagnano nel nostro tempo. Da lì abbiamo cominciato a indagare su quale potesse essere un soggetto interessante; arrivati a “Mars One”, che non è una fake news ma è folle come una fake news, ci è sembrato talmente interessante come tema che abbiamo scelto di partire da lì. Volevamo sviluppare un dispositivo teatrale che potesse essere e avere un codice un po’ più sperimentale, ma paradossalmente per raccontare una cosa del genere ci è sembrato che riprendere il codice della prosa, quello di scrivere delle scene vere e proprie che potessero essere nella loro assurdità simili a quella che è l’assurdità che vedevamo in quei video, ci è sembrato l’approccio più autenticamente “nostro”. Io e Michele siamo prima di tutto attori e quello che ci piace è lavorare sul linguaggio drammaturgico. Queste storie sono l’esempio di tante altre storie, delle persone che potrebbero andare su Marte. Abbiamo preso spunto anche da Cronache marziane di Ray Bradbury, che parla proprio di questo: in ogni capitolo si sussegue il processo di emigrazione su Marte, e l’autore lo analizza ogni volta dal punto di vista di una fetta di società diversa. Essenzialmente è quello che facciamo noi: sono quattro storie che vogliono, nel nostro modo, rappresentare le dinamiche sociali e principalmente le dinamiche base della società. Nella prima ci sono due personaggi che vedono partire altre persone, la seconda è personaggio che sta uscendo di casa per partire, nella terza ci troviamo al campo base, in cui c’è questa donna che è in procinto di salire sul razzo, mentre nella quarta scena ci sono due ragazzine colte nel momento in cui il razzo sta per partire. Cerchiamo un raccordo in questa umanità in partenza. Nel frattempo è tutto inframmezzato dalla figura del marziano, quasi un’immagine del vizio degli umani di colonizzare, che non si perde neanche su Marte! E lo fa attraverso le nostre nuove tecnologie, in cui per noi rientra la psicoanalisi. Nel Seicento erano le baionette, ora invece colonizziamo il marziano così, facendogli credere che la nostra sia la razza superiore.

Anche voi siete un po’ “marziani”. In fondo il video l’avete postato anche voi sul sito di “Mars One”, in un certo senso.

Sì, praticamente sì, ma comunque diciamo nessuna storia si può narrare se non c’è un’esagerazione.

Ti lancio qualche spunto. Marte e Terra alla fine sembrano non essere poi così dissimili. Forse questa Terra sta diventando troppo piccola, o scontata? In più, c’è il tema del vagheggiamento di un altrove in senso “ambientale”, lato (parlo di geografia, ma anche di habitus), come risultato di un’insoddisfazione è una caratteristica così squisitamente e contraddittoriamente umana. Già Seneca ammoniva rispetto al movimento e al cambiamento, quando a cambiare è solo il cielo sopra alla testa. Voi alludete anche a una realtà che non si può più avere, ecco perché si parte, ma forse in verità questa realtà ce l’abbiamo fin troppo, tant’è che siamo pronti a dispensarla a piene mani: su Marte si fa la psicoanalisi.

Il tema della psicoanalisi nasce a livello personale e in modo molto spicciolo. Questo lavoro ci ha permesso di riavvicinarci un minimo al genere umano, ci ha portati ad amare di nuovo la nostra razza. In quel paradosso ci identifichiamo, è proprio lì che ci ritroviamo senza negarlo. Forse una volta accettata questa condizione, una volta riuscita ad avere una visione più lieta nei confronti di questo paradosso che troppo spesso attanaglia, proprio come dicevi tu, questo forse ci permette di rallentare il passo, di fermarci un attimo nel presente e capire comunque che questa angoscia, questo terreno sotto ai piedi e il tempo in cui ci si ferma sono proprio le cose che ci definiscono. Ed è proprio lì che ci fermiamo, ci mettiamo in pausa, in questa condizione.

Tant’è che poi lo spettacolo si chiude con un ritorno. Che differenza c’è fra il marziano e gli umani?

Un confronto abbastanza semplice: nel marziano ho lavorato su un riavvicinamento non tanto su una figura infantile, piuttosto su una che guardasse al mondo con occhi nuovi e non consci. Forse sì, c’è differenza nel momento in cui lo psicoanalista, invece che cercare di apprendere, è solo pronto a dare. Il marziano è uno che prende molto, che è pronto ad apprendere. Ritorno proprio no, si conclude con una partenza. Noi non capiamo dove andrà il marziano, però prima di andar via piange per la prima volta. Costruiamo questa figura completamente senza gravità, che aleggia sopra tutto lo spettacolo, che non conosce emotività e il suo fare, il suo totale asservimento o salvezza, è finalmente avere coscienza della propria condizione. Quindi ha in mano questo interrogativo: essere consci delle proprie turbe è bene o male?

E adesso tornate a Salerno, per la quarta edizione della stagione Mutaverso Teatro. Nella sua interezza è una stagione che come centro ha il riportare in primo piano la scrittura e l’arte dell’attore intesa nella sua dimensione più artigianale.

Siamo stati ospiti di Mutaverso Teatro alla prima edizione, con Amleto FX, nel 2016 e ormai il rapporto con Vincenzo Albano è stupendo, ma al di là di questo il punto per noi è un altro: bisogna cominciare a parlare di queste figure e di queste iniziative che nelle piccole provincie italiane cercano di mandare avanti il sogno che è questo tipo di teatro, perché stanno diventando veramente dei piccoli grandi eroi. Vincenzo è uno di quelli. La definizione che suggerisce la stagione la sentiamo proprio nostra, nel momento in cui cerchiamo col nostro lavoro di dare dignità al mestiere dell’attore, che sembra ormai solo una parola. L’attore, etimologicamente, è colui che agisce, ma ci sembra una parola così conservatrice. Non capiamo il motivo per cui debba essere così, la definizione è limitata: mentre la parola, e anche la parola intorno ad “attore”, che ha una sua storia, deve essere riconosciuta. Noi cerchiamo col nostro lavoro di dare nuovo lustro alla pratica, cercando di associare riflessioni che possano essere interessanti e contemporanee alla parola “attore”. Quindi sì, noi nella dimensione di Mutaverso Teatro ci stiamo bene. 

Da ultimo: il titolo. Vieni su Marte, così senza punteggiatura: invito o ordine?

Amplificare la domanda e non dare mai risposte. Quello è il primo compito del teatro… Marzulliana verità.

 

[Immagine di copertina: foto di Francesco Tassara]

 



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