The Flaming Lips @ Alcatraz – Milano
Nel 2002 Q Magazine, noto periodico britannico, inserisce gli statunitensi The Flaming Lips tra le 50 band da vedere dal vivo prima di morire. Un’affermazione del genere, che sulle prime potrebbe risultare iperbolica ed eccessiva, trova personalmente riscontro nella serata del 30 gennaio 2017 quando la band di Wayne Coyne, il grintoso frontman, approda (unica data in Italia) all’Alcatraz di Milano. Fuori dal locale una nutrita folla di persone, proveniente da ogni parte d’Italia, attende fedele e già entusiasta. Non tutti appaiono sobri nella mise, anzi qualcuno si è concesso l’azzardo di indossare costumi di ogni genere per omaggiare la storica band: questa scelta sa già di vittoria prima che il concerto abbia inizio. L’atteggiamento – benché temerario – non sorprende del tutto se si considera la peculiarità predominante di Coyne & Company (all’attivo 15 dischi pubblicati nell’arco di un trentennio), ovvero quella di apparire fuori dagli schemi e scevri di etichette prestabilite. Genio e sregolatezza. Mancano pochi minuti alle 21:00 quando entro (per la prima volta) all’Alcatraz, di cui mi colpisce l’imponenza. The Flaming Lips, nei loro piacevolissimi deliri di onnipotenza, non potevano non calcare un palco così importante. La serata, a dispetto delle temperature invernali, si infiamma subito con l’arrivo di Georgia, un duo femminile dal carisma inverosimile: una delle due è ai synth, l’altra (Georgia, appunto) alla voce e alle percussioni. La loro musica è un mix di pop psichedelico e contorsioni vocali. Sa già di memorabilia l’apparizione improvvisa di Coyne che filma con uno smartphone la performance delle ragazze, per poi scomparire tra l’entusiasmo e le grida del pubblico che comincia ad affollare il locale. Sono le 22.00 in punto quando i The Flaming Lips (formazione attuale: Wayne Coyne, voce, chitarra, piano; Michael Ivins, basso, tastiere, cori; Steven Drozd, batteria, chitarra, basso, cori; Kliph Scurlock, percussioni; Derek Brown, tastiere e percussioni) calcano le scene. La spettacolarità dell’evento è immediatamente palpabile: una ‘pioggia’ di coriandoli e palloni gonfiabili coloratissimi scende su un pubblico incantato e divertito mentre parte l’intro di Race For The Price (The Soft Bulletin, 1999), che aveva consacrato il passaggio dalle melodie heavy metal del primo periodo alla cosiddetta easytronica. Il secondo pezzo, Yoshimi Battles the Pink Robots – Part 1 (Yoshimi Battles the Pink Robots, 2002), accompagnato da una componente ‘luciferina’ più morbida, non ridimensiona l’effetto della spettacolarità: Coyne mostra al pubblico un cartellone gigante con la scritta ‘Fuck Yeah Milan’, mentre tre enormi pupazzi salutano la folla sottostante. Atmosfere noir e a tratti alienanti (How??; The Castle) caratterizzano l’ultima fatica della band (Oczy Mlody, 2017), a cui è dedicata la prima parte del live, non senza suggestioni di matrice più atavica: è il caso di There Should Be Unicorns che, pur mantenendo la linea gotica di Oczy Mlody, si alleggerisce di effetti tipicamente flaminglipsiani: Coyne, infatti, attraversa la folla, tagliandola letteralmente in due, a cavallo di un unicorno fosforescente. L’andamento della serata sembra aver preso ora una piega più normalmente psichedelica (Pompeii Am Gottërdämmerung, What is The Light?, The Observer), in concomitanza con la meno ossessiva presenza di elementi magico/fiabeschi sul palco, quando all’improvviso Coyne, all’interno di una bolla trasparente, comincia a rotolarsi nella folla. È il momento che probabilmente tutti aspettavano: il tributo a David Bowie con un ri-arrangiamento sorprendentemente elettronico di Space Oddity. Planet Earth is blue and there’s nothing I can do. “Confusi e felici”, per essere smodatamente citazionisti, ci si avvia verso l’ultima parte del concerto. Con imprevista repentinità, si cambia registro musicale: ancora un omaggio a The Soft Bulletin, prima con Feeling Yourself Disintegrate, nenia elegantemente triste, erede del tenero proiettile che dà il titolo al disco e che disintegra, appunto, le nostre labili difese (something is ending//within us; qualcosa sta finendo//dentro di noi); e poi con Waitin’ For a Superman, in cui la voce di Coyne si spezza in un puerile languore coronato dal candido suono dei pianoforti. Con la celebre Do You Realise?? (Yoshimi Battles the Pink Robots, 2002), la band di Oklahoma City chiude questo irripetibile evento. La voce di Coyne che canta Do you realise that you have the most beautiful face?, mi accarezza e mi rassicura ed è come se percepissi la possibilità di un futuro migliore grazie alla presenza della preziosa componente che banalmente e speranzosamente campeggia sullo schermo alle spalle del palco e che palpita come si simulasse il battito del cuore: LOVE. Le luci si spengono e si torna a casa: con un motivo in più per sorridere.