The Cure @ Roma – 30/10/16
Lascia davvero sbalorditi scoprire come per i The Cure il tempo non sia mai passato e tutt’ora sia possibile sentirli suonare con la medesima intensità delle migliori registrazioni dal vivo e degli storici album, cantare con la stessa voce straziata e sognante, venendo proiettati immediatamente in quell’immaginario oscuro ed onirico creato in quattro decadi di attività.
“Whenever I’m alone with you, you make me feel like I am young again” recitava quell’icona gotica che porta il nome di Robert Smith nella ballata romantica “Lovesong” e, se non si fa caso alla linea non più impeccabile dell’eterno ragazzone “immaginario” del Sussex, ancora giovane lo sembrerebbe davvero.
Nonostante abbia visto fiorire ormai 57 primavere, il frontman ed anima dei Cure, unico superstite della prima formazione, riesce ancora a trascinare con la sua solita verve malinconica da giullare triste e stralunato un’intera arena, sold out per l’occasione, composta dagli spettatori più disparati, dai giovani seguaci fino ai darkettoni più attempati.
L’occasione per vederlo ancora una volta intonare i suoi inni dark wave si è presentata dunque domenica 30 ottobre al Palalottomatica di Roma, data segnata dall’imprevista notizia del terremoto nel centro Italia che però non ha impedito ad un folto numero di appassionati di giungere nella capitale.
Quella di Roma è stata la seconda delle quattro attesissime date annunciate in Italia. Dopo aver lasciato agli scozzesi Twilight Sad il compito di scaldare il pubblico, l’immersione nelle visioni targate The Cure inizia alle 20:30. In quasi tre ore di live sciorinano tutte le loro hit più celebri ed apprezzate, andando a ripercorrere le tappe più significative della loro pluridecennale carriera. Ad aprire le danze è “Shake dog Shake” ma a regalare il primo sussulto è “The Walk” con i suoi synth orientaleggianti e danzerecci.
Difficile immaginare come “Push”, “In Beetween Days”, “Play for Today” potessero trasformarsi in veri e propri cori da stadio capaci di coinvolgere il palazzetto intero a ritmo di battiti di mani, così come era difficile prevedere la perfetta riuscita di un brano di assoluto impatto come “Give it me”, reso ancora più caotico della versione in studio ed epilettico dalle rapidissime luci ad intermittenza proiettate dal palco.
A metà concerto è il momento dei primi grandi successi: con “Picture of You” l’atmosfera diventa romantica e delicata; “Lullaby”, manifesto dark, è inquietante e suggestiva come da copione mentre dal grande schermo montato sul palco si stagliano geometrie imperfette create da fili di ragnatela. L’ambientazione nipponica di “Kyoto Song” anticipa i famosissimi racconti di amori struggenti e perduti contenuti in “Lovesong” e “Just Like Heaven” che rendono l’arena una bolgia. Un capolavoro come “From the Edge of the Deep Green Sea” cantata con qualche tonalità più bassa nel massimo climax del ritornello forse perde qualcosa ma l’assolo di Reeves Gabrels (chitarrista per David Bowie dal 1987 al 2000) le restituisce il suo sound monumentale e solenne.
L’antimilitarista “One Hundred Years”, accompagnata da significative immagini in bianco e nero di guerra e dittatori (tra cui Mussolini), lascia scivolare velocemente lo spettacolo verso la sua conclusione ed il momento degli encores, ben tre, richiesti a gran voce da un pubblico insaziabile.
La cavalcata post punk “Burn”, il basso grave di “A forest”, i motivetti semplici ed accattivanti di “Lovecats”, “Hot Hot Hot”, “Let’s go to bed” preparano al gran finale che non poteva arrivare in altro modo che con la sequenza “Friday I’m In Love”, “Boys Don’t Cry”, “Close To Me”.
Con l’euforica “Why Can’t I Be You?” i Cure lasciano il palco tra lunghissimi applausi scroscianti e Robert Smith, visibilmente emozionato e rimasto da solo in scena, ringrazia il suo pubblico. Lasciando il Palalottomatica, la speranza condivisa è di poterlo vedere ancora, sempre uguale a sé stesso, perché per le icone il tempo non passa mai.