Compagnia della Fortezza // Beatitudo
Il teatro di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza è uno spazio tangibile, eppure ineffabile. Concreto eppure mistico, perché condensa un’opera contenutisticamente raffinata e socialmente complessa, figlia di una sensibilità rara. Punzo, infatti, ha contribuito e lo fa tutt’ora a una vera e propria rivoluzione, non solo dell’idea di teatro, ma anche delle arti tutte. Mosso dall’interesse di fare dell’altro, anche e soprattutto quando l’altro è detenuto in un carcere, un’opera d’arte, a Volterra, città nella quale trent’anni fa è nata la compagnia del regista campano, l’esperienza teatrale, in principio esclusivamente laboratoriale, ha assunto negli anni un valore artistico notevole, oggi professionalmente riconosciuto. La Compagnia della Fortezza è infatti costituita da circa ottanta detenuti/attori e, abbattute metaforicamente le fortezze tra chi è fuori (noi) e chi è dentro (loro), oggi – e da trent’anni – è realtà che vive. Pulsa, combatte e cresce.
Beatitudo, trentaseiesimo spettacolo realizzato dalla compagnia, è stato portato in scena al Teatro Menotti di Milano l’8, il 9 e il 10 febbraio 2019, raggiungendo il sold out e una meritatissima ovazione. È ispirato all’opera di Jorge Luis Borges, in particolar modo alla sua più celebre raccolta di racconti, L’Aleph, opera esistenzialista nella quale sono contenute tematiche dicotomiche, speculari: la vita e la morte, il reale e il metafisico. Partendo da questi necessari ossimori, Punzo, regista attento a ogni dettaglio scenografico, “costruisce” un teatro esteticamente perfetto, il cui punto di forza è la “coralità” della performance, che veste gli attori – di colori, di costumi e di maschere sgargianti – e investe il pubblico. Tutti gli spazi della sala, infatti, sono visivamente “gremiti”; al suono di solenni tamburi (le musiche sono di Andrea Salvadori, insignito proprio per questo spettacolo del Premio Ubu 2018 nella categoria Miglior progetto sonoro), gli attori camminano come in processione in mezzo agli spettatori, reggendo tra le mani diversi oggetti (lance, spade di canna, libri), simboli di una “espiazione” simildantesca – che si traduce in una più serafica beatitudo. Da questo processo di profonda catarsi non è avulso il pubblico che, rapito da questo spettacolo (nel senso stretto del termine), si rivede nelle esperienze narrate, per quanto non esista un vero e proprio tessuto narrativo. Tutto sembra, anzi, fluttuoso e allusivo. Se da un lato l’atmosfera è eterea e fumosa (i volti appaiono e scompaiono dietro giochi di luci e di colori), dall’altro si avverte la potenza – e dunque la concretezza – della scena teatrale attraverso le fendenti parole di Borges riportate in vita dalla voce decisa di Punzo: “Che cos’è reale? Il dolore che ti cerca? I miei occhi che non possono vedersi se non in un riflesso? La schiena dell’altro che non sarà mai la tua ma la ricorda? Quest’attimo è reale, che li condensa e li nega e li sospende”. Non ci sono risposte a tali dissertazioni; si apre pertanto una terza via, la più cara alla filosofia borgesiana, quella delle infinite possibilità. Il labirinto in cui, secondo la mitologia greca, è stato rinchiuso il mostruoso Minotauro, ovvero Asterione (interpretato da uno dei detenuti), ne rappresenta un elemento incontrovertibile: “Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. Tutto esiste molte volte, infinite volte”. Dunque: cosa c’è alla fine di questo lungo e cadenzato cammino? Probabilmente l’Aleph – conclusione tanto di Borges quanto di Beatitudo – ovvero un’entità apparentemente indefinita, quasi sicuramente divina, che si palesa in ogni dove e in ogni tempo: “Vedo il popoloso mare, vedo l’alba e la sera, vedo l’Aleph, da tutti i punti, vedo nell’Aleph la terra, vedo il mio volto e le mie viscere, vedo il tuo volto e provo vertigine e piango (…); nessun uomo ha contemplato l’inconcepibile universo”. Sulla scena – luogo fisico che parla di metasifico – l’Aleph è probabilmente incarnato dal bambino che durante l’intera performance teatrale è rimasto sempre in ombra (figura eterea, appunto), ma che alla fine di questa comune esperienza sensitiva compare reggendo il mondo e infine stringe la mano di Armando Punzo al centro del palco. L’astratto e il concreto si sono fusi: se non altro il teatro avviene mentre si consuma, ineffabilmente.
[Immagine di copertina: foto di Stefano Vaja]