Cinema Il cine-occhio

Color Out of Space

Stefano Valva

La figura dell’alieno, ossia genericamente del diverso, del perturbante, è sorta nel cinema moderno (anche se era già presente preliminarmente nell’epoca classica, in primis nell’espressionismo tedesco) sia in armonia con il Dasein (l’uomo), sia come villain del post-umanesimo.

Per intenderci, in film come E.T. di Steven Spielberg, la materia aliena si connette emotivamente con l’uomo, diventando una specie di compagno di avventure e di interlocutore, per condividere e scambiare anche delle conoscenze con l’altro da sé. Invece, in opere come La Cosa di John Carpenter, esso diviene il nemico per eccellenza del mondo laboratoriale e tecnologizzato, quindi un essere vivente che distrugge tutto ciò che ha davanti.

In sintesi, una generazione di cineasti – principalmente quelli che operano tra gli Anni ’70 e ’80 – si dividono filosoficamente in due visioni – una positivista, l’altra pessimista – sull’inedito e misterioso rapporto tra l’umano e l’alieno.

Un regista come Richard Stanley – dopo più di venti anni – torna alla macchina da presa con un film tratto da un racconto horror/sci-fi di H.P. Lovecraft, inscrivendosi nella visione dell’alieno in stile “carpenteriano”, anche se qui la cosa viene mostrata allo spettatore, non resta – come nell’opera di Carpenter – una creatura per lo più misteriosa. Lì – attraverso le reazioni terrorizzate dei personaggi – il pubblico deve sostanzialmente immaginarsi la fisiognomica del mostro.

In Color Out of Space, la famiglia Gardner (guidata da Nathan, interpretato da Nicolas Cage), decide di trasferirsi dal contesto sociale delle metropoli, per prendersi una casa nella country land. Ogni membro della famiglia è un archetipo dei personaggi post-modernisti: Nathan vuole essere un padre migliore del suo, e attiva inoltre discutibili business; la moglie, malata da tempo, prova lo stesso a lavorare e ad essere produttiva, mentre cerca e le cercano una cura; la figlia Lavinia è una hippie 2.0, è vegana e si dà a dei riti esoterici, anche per tentare di guarire la madre; i due figli maschi, uno è adolescente e appassionato di informatica e di astronomia, l’altro più piccolo è affascinato dal nuovo contesto abitativo, con spazi aperti e luoghi da esplorare.

La tanto ricercata tranquillità dei Gardner viene interrotta dall’arrivo improvviso – in giardino – di un meteorite venuto dallo spazio, che sprigiona nell’ambiente una molteplicità di colori, come quelli di un arcobaleno, e che attraverso un processo graduale modificherà la materia terrestre della fattoria familiare, oltre che la condizione psico-fisica di tutti.

Il film di Stanley è idealmente diviso in due parti: la prima, nella quale la materia aliena muta e si evolve in maniera implicita, attuando dei cambiamenti repentini, ma di poco conto sulla quotidianità dei Gardner, creando il dubbio e accrescendo la curiosità degli spettatori; la seconda, nella quale – attraverso l’uso degli effetti speciali e di un montaggio che accelera il ritmo delle sequenze, oltre ad un utilizzo funzionale della colonna sonora – la pellicola diviene molto più esplicita, e lo scontro tra i personaggi e le creature aliene è diretto e crudo pur di trasmettere la sensazione dell’orrido e dell’insensato, sia (ovviamente) al pubblico, sia agli stessi personaggi. Quest’ultimi sfociano in comportamenti surreali e in reazioni emotive che talvolta possono sembrare fuori contesto, ma ne rappresentano un’irrazionalità che in quei frangenti è inevitabile.

Tale impostazione del plot se da un lato produce una narrazione mutevole ed evolutiva, dall’altro comporta anche l’abbandono di svariati aspetti, che vengono fisiologicamente tralasciati, tra cui la caratterizzazione dei personaggi, il rapporto psicanalitico degli stessi tra di loro, come analisi della logica familiare, lo studio psichico sulle difficoltà e sulle reazioni emotive, in frangenti nei quali si sta sotto-pressione, ed infine la creazione di un immaginario cinematografico – attraverso la storia di finzione – volto a giustificare le questioni spinose dell’inquinamento, del surriscaldamento globale e della decadenza della natura nel mondo contemporaneo. Tale aspetto è forse il più interessante, sia perché è un tema oggi sensibilissimo, sia perché diviene il fil rouge tra le due distaccate parti, seppur – come anticipato – non rientri nemmeno esso tra le caratteristiche più saturate dell’opera.

Eppure, Stanley dirige un film intrigante e godibilissimo, che ha degli spunti notevoli e li intreccia armonicamente, anche in base all’epilogo alla quale l’opera arriva, confermando inoltre l’ammirazione per i racconti di Lovecraft.

Il digitale non è messo lì a caso (come in tanti prodotti), bensì consolida il rigoroso lavoro svolto nell’allestimento del decoupage delle sequenze, che sono assolutamente apprezzabili  per l’accennata molteplicità dei colori, che inondano le scene (qui sono vividi e luccicanti, non c’è un’alternanza tra luce e oscurità, come nell’espressionismo tedesco) e la visione della trasformazione della materia aliena sulla terra dei Gardner, la quale si espande gradualmente come un morbo inarrestabile, colpendo in primis il territorio, poi il corpo, e infine la psicologia dei personaggi; una distruzione lacerante e procedurale.

Poi, altre due peculiarità del film, che lo portano aldilà del racconto adattato: il personaggio dell’idrologo, che ha come lo spettatore la funzione di avvertire il problema, cercare di aiutare i protagonisti, visionare dall’inizio alla fine il processo distruttivo, compiuto dalla materia extraterrestre, e l’inutilità della tecnologia, la quale si arrende alla forza malefica dell’alieno e si mette al suo servizio, lasciando l’uomo in balia della solitudine, ossia senza i mezzi per farsi aiutare da una comunità che è impercettibile (i Gardner sembrano degli inetti solitari, che non possono scampare dal destino nefasto di uno spazio fra interni ed esterni delimitato).

Su questo, è esemplificativa la scena della televisione, la quale immette sullo schermo immagini incomprensibili, e influenza – come se fosse un ipnotizzatore, ancora più letale di quello che è – la psiche dei personaggi, in versione pubblico davanti alla poltrona. Tale scena (oltre ad essere in toto una delle più sfumate) non può non ricordare – almeno indirettamente – Videodrome di David Cronenberg, anche se lì l’ipnosi andava oltre, perché la tv attirava a sé non solo psichicamente, ma anche fisicamente il personaggio. Essa era un tubo catodico vivente e senziente.

Color Out of Space si propone come un mix fra racconto surreale, immaginario sociale e culturale, psicodramma familiare e fantascienza post-umana, ossia quella ove l’uomo è inerme di fronte alla potenza indistruttibile della materia sconosciuta, la quale ha un’intrinseca connessione sia con quella umana, sia con quella di madre natura, e grazie a tale connessione, può sfoderare delle atroci qualità, per distruggere l’umanità e tutto quello che c’è intorno a essa.

Due lati della stessa medaglia: la natura e l’alieno. Uno che condiziona e modifica l’altro, ponendo le basi per una “terza guerra mondiale”, tanto diversa dalle altre dei corsi storici, quanto ancor più distruttiva. Perché stavolta la lotta è contro il visibile e il non-visibile, e contro le nostre stesse pulsioni e debolezze interiori.


  • Diretto da: Richard Stanley
  • Prodotto da: Daniel Noah, Josh C. Waller, Elijah Wood, Lisa Whalen
  • Scritto da: Richard Stanley, Scarlett Amaris
  • Tratto da: "Il colore venuto dallo spazio" di H.P. Lovecraft
  • Protagonisti: Nicolas Cage, Joely Richardson, Madeleine Arthur, Q'orianka Kilcher, Tommy Chong
  • Musiche di: Colin Stetson
  • Fotografia di: Steve Annis
  • Montato da: Brett W. Bachman
  • Distribuito da: RLJE Films (USA)
  • Casa di Produzione: SpectreVision
  • Data di uscita: 07/09/2019 (Toronto), 24/01/2020 (USA)
  • Durata: 111 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese
  • Budget: 12 milioni di dollari

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