Arti Performative

Collettivo SCH.Lab // Esse – Santo Subito

Renata Savo

Alle Carrozzerie n.o.t è stato presentato il terzo capitolo del progetto di Dante Antonelli sulla drammaturgia dell’austriaco Werner Schwab, ritratto performativo di un artista incompreso, tra stereotipi e cliché.


 

Collettivo SCH.lab è il nome che il regista Dante Antonelli ha dato al suo progetto sulla drammaturgia di Werner Schwab. Nel 2015, lo spettacolo FÄK FEK FIK – Le tre giovani, da Le Presidentesse, primo capitolo di un ciclo di ri-scritture che attingono ai Drammi Fecali dell’autore austriaco, si era fregiato del primo Premio al Roma Fringe Festival: ritmo, linguaggio e contenuto perfettamente riconoscibili, amalgamati dentro una forma contemporanea, ironica e grottesca, in cui corpo, suono e testo costituivano un’unica unità di senso.

Un anno dopo, il Collettivo SCH.lab presenta alle Carrozzerie n.o.t, Esse – Santo Subito, terza tappa di questo processo, che arriva dopo essersi imbattuto nel frattempo, con DU/ET anche nel secondo dei drammi della tetralogia di Schwab, Sovvrappeso; insignificante: informe, uno studio sul concetto di coppia a partire da quelle presenti all’interno del testo originale.  

Con la sua terza opera, Sterminio del popolo o il mio fegato, cui si ispira Esse – Santo subito, Schwab ritraeva un’Austria retrograda e incolta: l’immagine di una famiglia borghese e arrivista, e più in generale, l’ipocrisia, il conformismo, che attanagliavano la società in un’area geografica e in un periodo storico ben definiti. E allora ecco che Dante Antonelli trasferisce il paesaggio umano di Schwab nell’Italia meridionale, a Pietralcina, lo spazio dove probabilmente nell’immaginario comune si fa più forte il sentimento di chiusura mentale, per la sovrapposizione tra lo stereotipo di un Meridione culturalmente arretrato e l’aura di misticismo legata al luogo.

Ed è in uno spazio scarno, spogliato di qualsiasi oggetto o simbolo, che Dante Antonelli cala una realtà tutt’altro che vuota. Piuttosto pesante, infatti, è quella vissuta da un giovane artista depresso e storpio, Herrmann, interpretato da Gabriele Falsetta, privato della sua stessa libertà di immaginazione e dall’anima nera come il rito che si concede ogni giorno: dipingere un paesaggio sempre identico per poi cancellarlo a furia di grosse pennellate nere. Montagne, alberi, un’anziana donna che pare recarsi a messa. Un mondo puro che sa di antico, perduto e spazzato via dalla vernice nera, come le palazzine di cemento che hanno coperto il volto autentico della natura.

Nella solitaria, versatile ed espressiva figura di Falsetta si alternano diversi ruoli: l’artista, nonché figlio, incompreso; una madre assai religiosa e perbenista sebbene profondamente incoerente nella sua maniera di offendere la “creatività” del figlio; un ingegnere che pretende di dettare norme alla fantasia del ragazzo, indirizzandolo verso il ritratto di un mondo più moderno, immerso nel cemento – e quindi nell’artificio – di una società piegata su se stessa e incastonata, dipendente dagli stessi feticci da lei prodotta; in primis il denaro. Infine, uno zio di campagna, che aprirà al giovane orizzonti sconosciuti, e lo farà attraverso la violenza: ma quel genere di male non sarà mai quello peggiore, proprio come una certa tonalità di nero non sarà mai abbastanza nera. Perché al peggio non c’è mai fine. Peggio, addirittura, della violenza esplicita o sedimentata sul piacere sessuale, per esempio, esiste la perversione dell’altruismo: «Chi vi insegna l’altruismo ve lo sta mettendo su per il culo».

Se le intenzioni del testo appaiono nobili, bisogna però dire che sulla resa dello spettacolo grava un utilizzo smodato di pause, silenzi che diventano proiezioni di una visione del teatro che cerca a tutti i costi di mettere a disagio lo spettatore, fissandolo, interpellandolo, giocando con la frontalità del dispositivo scenico; una modalità che se fino a qualche tempo fa sembrava una possibilità, adesso è divenuta a dir poco una prassi. E forse ora non basta più. Le pause diventano vuoti forzati, faglie delle stesse intenzioni.

Anche le parole che restano paiono suoni che devono riempire quei vuoti, l’attesa di un finale. Diventano persino più fastidiose dei silenzi. Questo terzo capitolo, in completa antitesi rispetto al primo, condensa tutti i cliché che rendono deleteria un’opera performativa agli occhi di chi vorrebbe far coincidere, erroneamente, il “teatro contemporaneo” con un’etichetta: frasi a effetto, performer che si vestono/svestono, che interpellano lo spettatore, ammiccamenti al trash che senza una reale motivazione vorrebbero essere giustificati, resi tollerabili, soltanto dal fatto di essere inseriti all’interno di una cornice.

Per fortuna resiste, nitido e luminoso, il ricordo dello stile ravvisato in FÄK FEK FIK: quell’unità di senso generata dalla combinazione di corpo-suono-parola, la presenza di un corpo che sa ascoltare, un corpo reagente alle evocazioni sonore (anche qui, come nel precedente capitolo, realizzate dal Dj Samovar). Un corpo-senso: “senso” inteso non solo come “significato”, impalcatura drammaturgica dello spettacolo, ma anche come elemento sensoriale, sovra-scritto dal suono, una colonna sonora che qui, rispetto all’altro spettacolo, è meno invasiva e più variopinta.

«Questa serata come si risolverà?», si domanda il protagonista.

Se lo sarà domandato anche qualche spettatore. Se lo domandavano anche certi personaggi usciti dalla penna di un genio come Samuel Beckett. Con l’unica importante differenza che invece di creare l’attesa attraverso i silenzi, Beckett usava le parole. E i silenzi, laddove ce n’erano, non erano vuoti, ma altri pieni.

Ecco, si potrebbe ricominciare da qui: riempire i silenzi vuoti con quelli pieni. Oppure, provare a colmare i silenzi con altre dense e più formose parole.


Dettagli

  • Titolo originale: Esse - Santo Subito

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