Claudio Morici // 46 tentativi di lettera a mio figlio
«Ciò che irrompe nelle nuove narrazioni non è il padre, ma la mancanza del padre.»
Claudio Morici è chiaro sin dal sitolo. Quelli che rivolge a suo figlio sono “solo” tentativi (e molti) di lettera. 46 tentativi di lettere a mio figlio, visto a Carrozzerie n.o.t il 16 ottobre, non appare in forma chiusa, non è una consegna ultimata sul senso della vita. Quella che l’attore-autore articola col suo reading comico è piuttosto una condivisione profonda, divertente e leggera, sui segni che la vita ha inciso nella sua voce di padre. Un tentativo felicemente riuscito d’epistolario tragicomico su quello che possiamo lasciare alla carne della nostra carne.
La scelta del monologo-lettura con la figura centrale e per lo più statica, cara all’autore romano, consente appunto di focalizzare la narrazione sull’esile corpo della voce, strumento amabilmente indagato nelle sue sonorità nasali e giocose, evocanti la nenia d’un padre intento a rassenerare con le favole il sonno di un bambino; ma il contenuto dei 46 tentativi è proprio la denuncia della tragica impossibilità storica di una comunicazione simbolica quale quella favolistica, forma letteraria desueta. Simbolica in senso etimologico, ovvero di energia unificante, di tradizione di senso filtrato da una forma artistica e/o da un rito sonoro quale la lettura sul bordo del letto. Vengono in mente gli scaffali della letteratura per l’infanzia delle attuali librerie, sovraffollati di raffinate edizioni grafiche che tutto puntano sulla veste editoriale. La prevalenza dell’immagine sul testo, che trasfigura l’oggetto libro, feticcio da possedere, nasconde forse proprio quell’evaporazione del Padre-figura della legge che la psicanalisi ha individuato come cifra tragica della contemporaneità. Perdita che, da un lato, apre alla sostituzione della legge del Padre con quella del Capitalista, che rimuove culturalmente ogni limite in nome del tutto godere-tutto possedere, dall’altra inibisce la possibilità di una comunicazione del senso della vita, che è, intrinsecamente, limitazione. Claudio Morici costruisce quindi il dialogo nel segno di un epos nostalgico, perduto, e fa esplodere in sottofondo il cosmo delle favole, con successiva caduta di bambole, peluche, giochi d’infanzia tutt’intorno all’attore. Queste, come piccole carcasse poetiche, sdoppiano lo stato emotivo del pubblico, riunito attorno a un cantastorie che sa racimolare il desiderio di bere ancora da una Voce di padre qualche parola, che possa tracciare una linea, nel tentivo di un compimento esistenziale. Nessun compimento, però, potrà arrivare. L’esito di questo percorso dolcemente umano, che è lo spettacolo, diviene quello della condivisione di una mancanza. La luce che scalda all’uscita dal teatro non è solo quella delle risate che l’indubbia abilità comica di Morici sa suscitare, ma è il globale prevalere del calore specifico di una relazione unica e personale che viene portata in scena. In nulla Morici intellettualizza la sua vicenda particolare, lasciando agli spettatori l’introiezione e la potenziale universalizzazione. Il figlio ha un nome che è tanto più reale quanto meno è pronunciato. E non è pronunciato mai, infatti, ma viene facile immaginarlo. Ora assorto, ora ridente tra il pubblico. Attraverso l’evocazione di un background di oggetti tecnologici a tutti ben noto (gruppi whatsapp dei genitori della classe scolastica; ma anche le resipiscenze adolescenziali, come la “Peroni da 66”), la drammaturgia capta la benevolenza della platea in modo leggero; ma la struttura epistolare, l’abilità interpretativa, l’evidente trasporto alla base della genesi dello spettacolo, nascondono l’elevato rigore artistico di una forma felicemente indagata.