Arti Performative Focus

Se “Il cielo non è un fondale”, allora, cos’è?

Andrea Zangari

nessuno può misurare lo spazio di un sogno

Se Il cielo non è un fondale, allora che cos’è? Con un titolo che è una negazione, Deflorian\Tagliarini immettono lo spettatore in un preascolto in cui prolifera il dubbio. Prima ancora di entrare in sala, prima e fuori dal teatro inizia lo spettacolo. Se il cielo non è un fondale, certo allora è figura, stando alla dicotomia figura-sfondo. Così, appena preso posto, lo sguardo penetra la scena fino a quel fondale, spinto in fondo al palco, che è naturale associare al cielo nonostante la sua grigia polverosa mostra. E mentre l’osservazione diviene una ricerca, ostacolata da quella negazione nel titolo e dalla materialità innegabile dell’assito ligneo che (si) vorrebbe e non (si) vorrebbe essere il cielo, Daria Deflorian, già sul palco – del Teatro India di Roma – con Antonio Tagliarini, Francesco Alberici e Monica Demuru, prende la parola. Ci chiede di chiudere gli occhi quando richiesto, e così chiedendo, rinnova un patto col pubblico che è un’operazione binaria, prolificamente ambigua. Da un lato, suggerisce un’intimità che mescola ipso facto lo spazio della scena con la platea, dall’altro ribadisce in maniera netta la distinzione, o meglio ne ripone la consistenza in seno alla nostra volontà di spettatori: se non chiudessimo gli occhi, se declinassimo la richiesta, non saremmo forse noi a voler violare quel patto che è, in fin dei conti, l’introiezione culturale e cultuale dell’istituzionalità del teatro? O non è forse proprio un invito a tenere gli occhi ben aperti, per smascherare l’intimità dell’attore quando vorrebbe celarsi dietro il sipario delle nostre palpebre? Insomma, in una battuta, la prima, è consegnata l’intrinseca debolezza psichica, per così dire narcisistica, di colui\colei che fa teatro: la complicità dell’esibizionista col voyeur.

Sono passati più due anni dalla prima volta che Daria Deflorian ha così donato al pubblico, avanzando sul limitare del proscenio, la nudità personalissima de Il cielo non è un fondale. Due anni di fortuna critica pressocché unanime, un tappeto di parole srotolato a valle di una complessità scenica che impone sì letture stratificate, che tuttavia spesso forzano il dispositivo in nome di categorie intellettualmente calzanti quanto strutturalmente riduttive. È il rischio più grande di un’opera che cita in sottotraccia riferimenti letterari elevati, spesso apertamente filosofici, che potenziano il dispiegamento mentale, il versante intellettuale della ricezione. L’ormai vasta bibliografia evoca come un mantra l’assenza della trama, il prosciugamento del racconto. Un poietico farsi (dello) spazio attraverso un sistematico minimalismo, a danno dell’”io obeso” e del suo discorso, che dona all’opera una connaturata e preliminare vastità.

Foto di Dietrich Steinmetz

Quest’”apertura” volumetrica, che trionfa nella spaziosità scenografica quanto nella pulizia di scrittura, è il tragitto effettivo dell’operazione, e tuttavia in questo spazio liberato non scompare il raccontare: semmai scompare ogni pre-testo, sostituito da un parlare sorgivo, necessario, scucito dalla pelle, ma come dal lato epidermico interno-interiore. C’è dunque un carattere lirico che erompe in gesti e parole portati come la consegna personale di un mancar-si: passaggio che è più netto nei controcampi canori, alternati a dialoghi e quasi-monologhi rivolti al pubblico. È così, ad esempio, che dopo l’iniziale apostrofe diretta all’uditorio, la ragguardevole voce di Monica Demuru riavvolge l’incipit, resetta il piano d’ascolto cantando a cappella Il cielo di Lucio Dalla.

Le luci scendono e subito quella richiesta iniziale si fa ricordo, si ridà come problema: quando è iniziato lo spettacolo? Deflorian, Demuru, Tagliarini e Alberici, che occupavano la scena dal principio in pose disimpegnate, consapevoli della configurazione scenografica ma apparentemente non del luogo-teatro, riprendono posizione, secondo vettori quanto più chiari tanto più lo spazio scenografico è laconico: eppure il loro stare non sembra meno sperduto di quello iniziale. I loro corpi con semplici abiti blu, controcanto al cielo, prendono il valore degli oggetti nelle tele morandiane: di liriche solitudini, indicatori dimensionali dai confini tremuli. Se in Rewind. Omaggio a Café Müller o Reality una realtà esterna (e sia pure la realtà dell’arte o di un diario) dava appoggio all’intreccio, qui il motore della scrittura è il sogno. Antonio sogna Daria (tutti si apostrofano colloquialmente per nome, immettendoci in un’intimità data) riversa a terra, simile ad una clochard nella città indifferente, ma passa senza fermarsi. Dal rimorso di una non-azione sognata s’intesse la composizione di monologhi e dialoghi, una costruzione frattale accresciuta dall’anelito a trovare un posto in quel sognare, nel proprio e in quello altrui, e un posto nella scena, che si fa metafora della città. Il termine non ha valore generico: la dimensione urbana è evocata esplicitamente, dall’inizio alla fine. Nei dialoghi, nei ricordi, nei brani cantati da Demuru. Sembra di vedere la distesa grigia di asfalto sporca e dissestata su cui scorrono le storie. Un campo cromatico che è simbolo opposto a quell’incontaminato cielo che sempre più si configura come mancanza. Deflorian\Tagliarini disegnano una città che non ha confini, in cui la Roma in cui ci troviamo e la Milano di Antonio Tagliarini si fondono in un nastro continuo e misero, scorrendo il quale la ricerca del cielo si dà come l’unica possibile strategia di sopravvivenza. Ed è uno scorrere di vite parallele, di parlottii interiori in cui è facile immedesimarsi, incrociabili solo in quel punto improprio che è nel cielo: un cielo che non è fondale, ma sostanza che penetra negli abissi piccoli e grandi fra le cose. Respira nel vuoto, lo quantifica, lo rende vivibile. La recitazione di Deflorian, Tagliarini, Demuru e Alberici si fa leggera, semioticamente rada, per lasciare sopravanzare quel vuoto colorato fra l’azzurro e la cenere. «La figura ideale di questo lavoro è il flâneur, l’uomo che cammina con il capo rivolto a terra e quando alza lo sguardo il suo volto è una pellicola impressionata dai volti cangianti della folla». Così leggiamo fra le note del testo drammaturgico, edito da CUE Press. Drammaturgia, beninteso, inalienabile dai corpi e dalle labbra degli autori, dai loro tic, dal tono e dalla tinta emotiva, ammiccamenti ad una modalità di vivere la scena (e la vita?) come orlo di una voragine. Eppure, o forse proprio per questo, a leggere il testo vien da chiedersi cosa ne sarebbe di questo spettacolo, se interpretato da altri. Se con tutto ciò seguitassimo ad additare la scomparsa di una trama, non potremmo negare che ad essa si sostituisca un chiarissimo tessuto, una sovrapposizione di campi cromatici e temperature esistenziali separate da un layer d’invisibile. Tutto il processo potrebbe racchiudersi in un leggero inclinare del fondale, quando Deflorian vi si appoggia: una luce di taglio, à la Hopper, la assorbe in una foto-grafia del passato. Una fra le altre che i quattro ci regalano nel fluire dello spettacolo. Eppure, si potrebbe avanzare qui il dubbio: l’autobiografismo non è pur sempre fictionario? Al di là del legittimo dubbio circa la veridicità dei ricordi condivisi, che pure risultano credibilissimi in grazia dello stile non-recitativo cui la compagnia ci ha abituati, l’autoritratto è da sempre un’operazione ove l’insincerità è tanto più eclatante quanto più è sottile. Lungi dall’attribuire a questa eventualità un valore negativo, si vuole invece indicare come l’etichetta di “teatro della realtà”, che si è spesso posta su questo lavoro come su altri del duo, schematizzi un gioco serissimo, più ontologico che estetico. Se di realismo si parla, è magari un realismo magico, che sublima e non cancella la finzione. Come magica, ovvero trasfigurante il reale, è la presenza del termosifone che, da caloroso compagno delle serate solitarie di Deflorian, si ripropone come strategia analogica per rigenerare la città, insieme alle vite di noi che l’abitiamo.  

 

[Immagine di copertina: foto di Elizabeth Carecchio]



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