Cinema

C’era una volta… a Hollywood

Franco Cappuccio

Più che una fiaba, o un film di Sergio Leone, il titolo del nono lungometraggio stand-alone di Quentin Tarantino suggerisce in realtà un intreccio elaborato che potrebbe richiedere un po’ di tempo per essere narrato. Non così tanto elaborato in realtà ma piuttosto una sorta di storiella, C’era una volta… a Hollywood è ambientato in un tempo e in un luogo familiare ma allo stesso tempo fantastico – gli ormai mitologizzati tardi anni ’60, con le loro speranze impetuose, le cadute in disgrazia, e i risvegli terribili da un bellissimo sogno. O, come mostrato attraverso le lenti dei personaggi di Tarantino: all’apparente fine della carriera per un attore TV di nome Rick Dalton, e per estensione per il suo doppio stuntman Cliff Booth. Settando l’inizio del film nel Febbraio 1969, C’era una volta… a Hollywood ci introduce a Rick (Leonardo DiCaprio), seduto fianco a fianco con Cliff (Brad Pitt), i due impegnati a spiegare il loro lavoro in un’intervista backstage in bianco e nero in un anonimo set western. Rick impersona cowboy, Cliff impersona Rick a cavallo e a mezz’aria; entrambi si divertono a fare cose divertenti per il nostro intrattenimento.

Quello che segue ha sorpreso molti, tra pubblico e addetti ai lavori, fin dalla premiere di Cannes dello scorso Maggio, e non perché ci sia qualche scena particolarmente truculenta di decapitazione. Succede in realtà qualcosa di ancora più strano: C’era una volta… a Hollywood si assesta in una routine dal ritmo molto blando su degli amici/compagni, prima che le loro strade inizino a divergere. Rick ansiosamente prende la parte di un cattivo western, con Cliff come suo aiutante/punto di riferimento, ma al tempo stesso anche in giro in maniera indipendente, come ci si aspetterebbe dalla rilassata controfigura di un potenziale uomo finito. E per un terzo e vitale filo (come sempre nel lungo gioco di narrazione a balzi indietro di Tarantino), c’è la “vera” figura di Sharon Tate (Margot Robbie) e di suo marito, il grande regista Roman Polanski (Rafal Zawierucha), impegnati a girare per la città, uscire, rendersi desiderabili. Tutto questo, nonostante il piccolo problema degli omicidi della raccapricciante Manson Family ad aleggiare lì nella storia…

Anche tenendo ben presente questa cosa, Tarantino non dirige spingendo il piede sull’acceleratore della tensione narrativa, che in fondo è sempre stato uno dei suoi marchi di fabbrica. Niente di più lontano: Rick abbraccia il suo nuovo ruolo di cattivo da saloon, e fanciullescamente si riprende la scena; Cliff prova a badare ai suoi propri affari con carisma maschile e codice di decenza (in modo ancora più simile agli stilemi di un personaggio western); e la apparentemente condannata Tate prova un imperturbabile piacere nell’essere sull’orlo di farcela – attraverso tutto questo, Tarantino fa diventare il film qualcosa di inaspettatamente toccante, anche dolce. Il regista rimane emotivamente coinvolto negli outsider e nei criminali in difficoltà  – una trasmutazione degli antieroi degli anni ’70 nel linguaggio dei film di genere – e il suo cuore qui parteggia per gli sfavoriti, ovvero l’attore tv che ce la sta facendo a malapena e il suo doppio stuntman di talento che potrebbe scomparire nell’oblio.

Qualcuno potrebbe superficialmente descrivere C’era una volta… a Hollywood come un film in grado di combinare l’atmosfera dell’ultima occasione e la mezz’età di Jackie Brown con il bisogno del revisionismo fragoroso, in grado di sistemare la Storia come dovrebbe andare, di Bastardi senza gloria. Ma c’è qualcosa allo stesso tempo matura e follemente, profondamente affascinata (se non innamorata) del mondo di Hollywood e, ancora di più, dei suoi margini più remoti – e qui, nella più artificiale delle ambientazioni, Tarantino raggiunge qualcosa di autentico ed emotivamente vero.

In fondo, come spesso si è discusso, non ci troviamo di fronte ad un regista che è in molti modi profondamente fuori moda per quelli che chiamiamo i nostri tempi? Per dirne una, il modo particolare con cui Tarantino vive nei ed attraverso i film sembra si sia per certi versi allontanato dall’essere parte della cultura pop, a iniziare dalla graduale minor presa del mito di un genio educato dalle videoteche – una nozione che non incontrerebbe oggi alcuna reazione da una generazione nata e cresciuta con lo streaming, YouTube e i torrent. Allo stesso modo, lo stravolgimento delle gerarchie di alto e basso e i suoi riferimenti riconoscibili solo ad una cerchia ristretta di “illuminati” contribuiscono a far poca presa in un mondo dove vige un senso generale di amnesia collettiva (se non indifferenza). E ancora più fondamentale, il debole di Tarantino per il suo glorioso quanto raccapricciante revisionismo è diventato un non punto di partenza per alcuni, in un’era che chiede degli approcci più “illuminati” alla Storia, a quasi tutti i livelli. Per dirne una, nel caso di questo ultimo film, il regista è già finito sotto i riflettori per la distribuzione di genere dei dialoghi dei suoi film (vedi ad esempio il Time: https://time.com/5645347/quentin-tarantino-women-dialogue/).

Quest’ultima critica deve aver confuso Tarantino, perché la Tate di Robbie è scritta così affettuosamente e, con il Cliff di Pitt, di sicuro condivide il cuore del film, nonostante le sfortunate spacconate di Rick. A dispetto del dramma che tutti associamo con la Tate, nella Hollywood di C’era una volta… a Hollywood è semplicemente un’attrice con la sua vita davanti a sé, che trae piacere dal suo proprio lavoro. Una sequenza importante, che all’inizio sembra esser messa lì per suscitare disappunto e una facile risata, vede la Tate fermarsi al cinema dove viene proiettata la commedia farsesca Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, in cui la Tate è co-protagonista nel ruolo di un’imbranata. Deve presentarsi al personale del cinema, ma poi viene invitata ad entrare; mettendo i suoi piedi nudi sulle sedie davanti, si bagna nelle risate del pubblico in sala. Si sta divertendo, in tutti i sensi; il film non sarà un capolavoro come Tess – il cui libro viene comprato per Polanski, in un’altra scena emozionale – ma si sta facendo strada (come, per dirne una, non sta facendo Cliff). L’ammirazione professionale di Tarantino è palpabile qui così come lo è quando Rick finalmente ingrana la sua perfomance, e la gioia del fare film diventa un altro aspetto ormai affermato del mood tarantiniano.

Negli occhi del Rick di DiCaprio, ovviamente, la Tate ce l’ha già fatta, in virtù dello status di grido del Polanski post Rosemary’s Baby; la giovane coppia gira in una macchina sportiva, libera come può permettersi di esserlo. Nel frattempo Rick, al suo primo girato dopo un po’ di tempo, passa il suo tempo libero leggendo un romanzo pulp western su un domatore di cavalli, che descrive così prima di commuoversi: “Non è più il migliore. Sta venendo a patti con come ci sente a diventare ogni giorno leggemente più inutile”. Rick lo dice alla formidabile succeditrice di nuova generazione della Tate – una attrice bambina (Julia Butters) completamente padrona di sè con cui sta recitando, la quale è impegnata a leggere una biografia di Disney e a prendersi fin troppo sul serio.  Le simpatie di Tarantino sono sempre state riposte nei professionisti lavoratori, che è sempre stato lieto di aiutarli a raggiungere la gloria, che si tratti di dirigere l’attore della tv tedesca Christoph Waltz a due Oscar o mettere la stuntwoman Zoë Bell in un ruolo da protagonista. E di sicuro, in Rick, mette su uno scenario in cui questo attore TV, il cui merito giace nel intrattenere persone con gesta temerarie, può compierne un’altra spettacolare prima che il film arrivi alla fine.

Parlando di spettacolo, il consueto metodo del regista dell’accumulazione e della sferzata a sorpresa non è qui stavolta dove giace la forza del film. Tarantino invece sceglie di uscire fuori da questo momento in maniera blanda, senza grande fretta, addirittura in un punto saltando in avanti di sei mesi – da Febbraio al leggendario Agosto del 1969 – evitando di dare a Rick il clichè dell’arco narrativo drammatico dell’attore decaduto/in ascesa (anche se, spoiler alert, inizierà a lavorare con Sergio Corbucci, su consiglio di un agente interpretato da Al Pacino). C’era una volta… a Hollywood prepara la scena per l’ingresso degli eventi storici, ma la costante quota di stranezza del film diventa il Cliff di Pitt, una volta una testa calda con una scia di terribili voci sul suo conto, e adesso un affabile uomo rassegnato, che divide la sua casa con un amorevole pitbull con cui si sofferma dandogli da mangiare grosse lattine di cibo in scatola. Con DiCaprio incoraggiato (o forse senza bisogno di esserlo) nel mantenersi entro i confini dell’interpretare il ruolo di un attore insicuro, Pitt come suo fedele secondo ha il permesso di risplendere con un’aura di tramonto positiva, che si abbina ai colori caldi della fotografia (sicuramente meno oscura della sua immagine). Pur non sembrando di preoccuparsi della sua condizione, la star, al suo meglio da anni e con un ritmo meraviglioso, si posiziona così confortabilmente nel ruolo dell’ombra e del personaggio di supporto, che ti porta a credere che anche Cliff potrebbe preferirlo.

Ed è proprio Cliff che entra nella tana del leone, il fin troppo celebre Spahn Ranch: l’ex location di qualche ripresa scalcagnata, divenuto casa del più raccapricciante B-movie di tutti, quello di Charles Manson e dei suoi seguaci. È un mondo alternativo coagulato dove Cliff scopre il proprietario e vecchia conoscenza George Spahn (un irascibile, apparentemente immortale Bruce Dern), cieco ma vivente in uno stato di negazione ed appagamento nei confronti dei suoi affittuari. La visita di Cliff è una rifrazione delle intersezioni di alto profilo che Manson avrebbe in realtà avuto con un ambiente stellato a cui non poteva accedere (la stessa frustrazione accende una miccia nel Charlie Says di Mary Harron: una visita da parte di un non impressionato agente musicale lascia Manson non riconosciuto, e rabbioso). Cliff stabilisce un po’ di legge nel ranch e se ne va, ma la bramosa semplicità dell’eroismo non sminuisce la forza di un film modellato e ritmato con grande aplomb non ostentato. Nel suo intrecciare insieme Rick/Cliff/Tate e nel lasciare che Cliff diventi se stesso come personaggio, Tarantino lavora ad alti livelli di pura soddisfazione narrativa, artigianato paziente contro l’intrattenimento, richiamando il riuscito risultato di Jackie Brown.

Dove ci porta allora il finora non spoilerato finale? E c’è un tocco di ansietà alla Rick nella scenata pubblica della lettera di Tarantino ai colleghi amanti del cinema responsabili di rovinare la sua magia creativa? L’ingiunzione trasforma i critici in personaggi di Tarantino, che parlano ancora e ancora per rinviare il prossimo twist, e nel far ciò costruendolo. Beh, fin dall’inizio… solitamente si dice che la storia ripete se stessa. E certamente nella nostra attuale così chiamata realtà, sembrerebbe così, con gli USA imprigionati in una distorsione temporale politica che reinterpreta gli antagonismi cinici della (appena lanciata nel 1969) corsa revanscista di Nixon, per non parlare dell’incubo hobermaniano di avere un pessimo attore come presidente (un altro). E a dir la verità, più ci si sofferma sul mondo che Tarantino ha creato – o ri-creato – nelle prime due ore di C’era una volta… a Hollywood,  meno si sente significativa la presenza del finale del film, nonostante lo scontro tra fatti e finzione tanto caro a Tarantino.

Dopo tutto, lo spirito dietro al film è che lo spoiler sia già avvenuto – lì fuori. E l’ironia è che l’aspettata resa dei conti di Manson e come questa interessi i nostri protagonisti sullo schermo né rovina il film né sovrasta il calore che veniva prima. L’inevitabile climax non ha nulla del sentimento malinconico che indugia quando la polvere si dirada. E in pochi minuti, è solo un’altra storia da raccontare ai vicini.


  • Diretto da: Quentin Tarantino
  • Prodotto da: David Heyman, Shannon McIntosh, Quentin Tarantino
  • Scritto da: Quentin Tarantino
  • Protagonisti: Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Margaret Qualley, Timothy Olyphant, Austin Butler, Dakota Fanning, Bruce Dern, Al Pacino, Kurt Russell
  • Fotografia di: Robert Richardson
  • Montato da: Fred Raskin
  • Distribuito da: Warner Bros Italia (Italia), Sony Pictures Releasing (USA)
  • Casa di Produzione: Columbia Pictures, Bona Film Group, Heyday Films, Visiona Romantica
  • Data di uscita: 21/05/2019 (Cannes), 26/07/2019 (USA), 14/08/2019 (Regno Unito), 18/09/2019 (Italia)
  • Durata: 161 minuti
  • Paese: Stati Uniti, Regno Unito
  • Lingua: Inglese
  • Budget: 90-96 milioni di dollari

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