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“I cavalli alla finestra” di Matei Vişniec: indifferenti alla Storia? Sensibili al nulla

Renata Savo

Ci sono parole grandi come costellazioni. Parole che valgono più di tutto, che acquistano ulteriore importanza, incisività, nel contesto in cui vengono pronunciate. Parole che possono amplificare la loro portata e anche fare male, molto male. Ferire, colpire, affondare. Trasformare. Oppure, al contrario, generare indifferenza. Il che, forse, è ancora peggio.

«L’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza. L’opposto dell’educazione non è l’ignoranza, ma l’indifferenza. L’opposto dell’arte non è la bruttezza, ma l’indifferenza. L’opposto della giustizia non è l’ingiustizia, ma l’indifferenza. L’opposto della pace non è la guerra, ma l’indifferenza alla guerra. L’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita o alla morte. Fare memoria combatte l’indifferenza». (Elie Wiesel, discorso alla Casa Bianca, 12 aprile 1999)

Partiamo dalle parole di indifferenza di questi giorni, quelle che ci stiamo abituando a sentire. Sull’autobus, all’uscita dal supermercato, davanti a una scuola, in un condominio, dal parrucchiere. Contro i migranti, contro l’’altro-da-noi’. «Quelli là»: si ode con sempre maggiore frequenza fare riferimento in questi termini alle persone che provengono da paesi lontani, dalla miseria e dalla disperazione; «Aprite i porti», grida Emma Marrone al termine del suo concerto, e parte per la cantante una valanga di insulti sessisti e xenofobi sui social network. O, negli stessi giorni, dalle parole che hanno raggiunto giovedì la redazione di “Fahrenheit”, il programma culturale dedicato ai libri di Rai Radio 3, condotto da Loredana Lipperini, dove si stava ricordando l’opera di Primo Levi al centenario dalla sua nascita: «Basta con questi ebrei, dovete fare cultura non politica», i commenti arrivati e giustamente letti dalla conduttrice, che ha poi comunicato la sua preoccupazione per quella che sembra suggellare – tristemente – la fine della retorica attorno a chi legge i libri, ovvero il fallimento della cultura come ancora di salvezza per la Civiltà. Non è un episodio di Black Mirror, questo, ma la pura realtà.

C’è un autore rumeno, oltretutto proveniente dal mondo dell’informazione, Matei Vişniec (1956), pressoché sconosciuto in Italia prima della seconda metà degli anni Duemila, di cui abbiamo avuto la fortuna di incrociare l’opera qualche tempo fa grazie alla compagnia Teatro dell’Argine, all’ITC di San Lazzaro di Savena (BO), e che in qualche modo ci ricollega, con il suo essere vissuto per un certo periodo nell’ombra a causa della scure della censura, al discorso della forza e della violenza delle parole, e a quanto media diversi siano in grado di aggiungerne o sottrarne. Quanta realtà possono negare le parole di indifferenza, e viceversa, quanto movimento possono creare attorno a un fenomeno, oggi come allora; al punto che proprio durante gli anni che hanno preceduto la caduta della cortina di ferro, molti autori componevano già pensando alla censura. Vişniec, appunto, è uno di quelli.
Per due volte nella sua lunga e ultradecennale storia Teatro dell’Argine ne ha messo in scena i testi: una prima nel 2008 (Del sesso della donna come campo di battaglia nella guerra in Bosnia, regia di Nicola Bonazzi) e una seconda nel 2010, con I cavalli alla finestra, diretto da Andrea Paolucci. Quest’ultimo lavoro ha fatto ritorno sul palco dell’ITC dall’11 al 13 gennaio scorso, nell’interpretazione di Micaela Casalboni, Giovanni Dispensa e Andrea Gadda.
Composto in Romania nel 1986 durante il regime di Ceauşescu, I cavalli alla finestra (Caii la fereastră) non riuscì a debuttare in quell’anno a causa dell’impedimento ordinato il giorno precedente alla première dalla Commissione Cultura e Spettacolo. Vi riuscì l’anno dopo, ma non in Romania, bensì in Francia, dove l’autore è emigrato, poi assurta a patria di adozione. Tra le pagine di un bel dossier che la rivista “Prove di drammaturgia” (n. 1, 2009) ha dedicato a Vişniec, si legge una dichiarazione dello stesso che non ci conduce troppo lontano dalla riflessione odierna, sull’ossessione del sentirsi manipolati, deviati, da una certa controcultura. Così, Vişniec: «Leggere pièce o romanzi bulgari è diventato insopportabile! Leggere il romanzo qualunque d’una nullità americana è meraviglioso, fantastico, mentre leggere i migliori romanzi delle Polonia, delle Serbia o dell’Ungheria sembra una forma di manipolazione del passato regime»; il passato è un contenitore di eventi drammatici, realmente accaduti, che a un tratto, per bocca di qualche folle e scellerato, diviene una raccolta di miti che non ci riguardano più, o “non più di tanto”, un processo che agisce in misura direttamente proporzionale allo scorrere del tempo. Si azzerano così, al cospetto del presente, tutta la Storia, i genocidi, la sofferenza, e a nulla sembrano valere le contemporanee forme di commemorazione istituite per debellare la possibilità che quel male si reincarni. Di tutto questo ci parla, I cavalli alla finestra, con un linguaggio surreale, quasi lynchiano. In un tempo fuori tempo, anacronistico dunque; un tempo morto, e in cui la morte viene a bussare alla porte nelle vesti di un messaggero, come un intermezzo pronto a ricordare con i suoi modi grotteschi quello che accade realmente all’esterno, fuori dalla finestra, e cioè che a poca distanza dai nostri miserabili gusci ci sono guerre, pestilenze e violenza, e che dell’una e dell’altra si muore. Per cui, chi esce non sa di farlo senza la garanzia del ritorno e, se pure ritorna, contagiato, non potrà più essere lo stesso di prima. Valga per lo spazio quello che vale per il tempo, per noi. E cioè che attraverso gli occhi del presente, nelle bolle rassicuranti in cui crediamo di trovarci, non siamo più in grado di percepire, come se lo avessimo inghiottito e metabolizzato, il passato dal suo interno, e di questo dovremmo ricordarci sempre. I cavalli alla finestra ci suggerisce questo meccanismo, non in modo immediato o didascalico. Le tre storie surreali, infatti, sono potenzialmente collegate e potrebbero anche essere ambientate in luoghi e tempi lontani tra loro. Illustrano fasi diverse della vita, dalla donna matura alla giovane figlia passando attraverso la moglie, dal giovane figlio all’anziano e quasi decrepito padre passando attraverso il marito. Accomunate da rapporti di manipolazione e dagli orrori della guerra, si aprono con date e nomi di “Pace…” inesistenti ma verosimili, che seguono e precedono guerre che si verificano sempre diverse eppure le stesse, di cui puntualmente siamo pronti a fare monumento, oggetti da contemplare come bomboniere in una cristalliera; se non fosse che quello che vediamo, appunto, sono solo i mobili, i bauli, gli involucri, non i simboli che questi potrebbero contenere. E allora, nello spazio vissuto e logorato come le relazioni affettive, la vita si trascina fino alla prossima venuta del messaggero (in greco ànghelos, da cui deriva il nostro “angelo” nel nostro immaginario dotato di qualità positive), che con i suoi atteggiamenti teneri, strambi, stralunati, annuncia la cattiva notizia della caduta al fronte di una persona cara mentre porge un mazzo di fiori colorati, esternazioni grottesche e caricaturali della sua incapacità di entrare nei panni dell’altro, perché dopotutto è addestrato per recitare un ruolo empatico ma non disgiunto dall’algido dovere di cronaca. C’è tutta questa complessità, tra essenza e apparenza, nella regia di Andrea Paolucci, che nell’affastellarsi caotico, pesante, degli arredi scenici, e nell’interpretazione eccellente, a tratti clownesca, esasperata, degli attori – soprattutto della magnifica Micaela Casalboni, che ha retto con grande controllo corporeo il ritmo sostenuto della difficilissima performance, con una forza incredibile -, ha preservato lo stile criptico, metaforico, dell’autore senza aggiungere troppo se non un senso di asfissia, di nichilismo, di prigionia; uno stile accostabile alla scrittura di Ionesco e Beckett, diversamente maestri di un teatro che ha eletto l’assurdo a paradigma dell’esistenza dentro e fuori la scena.

 

[Immagine di copertina: foto di Luciano Paselli]



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