#CastellinAria2019. “Intrecciare sguardi” con Renata Molinari, una mappa di parole per Alvito
Guardare per scrivere, scrivere per guardare. Una lezione su questo adagio, così si potrebbe riassumere il laboratorio di drammaturgia Intrecciare sguardi – fra osservazione e attenzione, racconto e visione, che si è tenuto a CastellinAria – Festival di Teatro Pop, a cura di Renata M. Molinari. Docente e pedagoga, fondatrice della Bottega dello Sguardo a Bagnacavallo (RA), che ha incrociato nel suo cammino figure cardine del Novecento teatrale come Jerzy Grotowski e Thierry Salmon e che, ad oggi, è tra le più autorevoli promotrici del ruolo del dramaturg sulla scena teatrale italiana. Chi scrive ha avuto l’opportunità di seguire l’esperienza del laboratorio da molto vicino, osservando per sei giorni, di esercizio in esercizio, il prodigio di una costruzione che a partire dallo sguardo del singolo è giunta a vibrare dell’energia inattesa del coro. Senza la pretesa di arrivare ad una drammaturgia compiuta in pochi giorni, Renata Molinari ha patrocinato un lavoro che garantisse a ciascuno di immergersi nell’osservazione, mettendo da parte la fretta di dire qualcosa, di giungere ad un prodotto consumabile nell’ìmmediato di una restituzione. Una modalità che dunque collima perfettamente col desiderio di seguire un processo, anziché un risultato, come la media parternship di questa testata ha tentato di fare diffusamente nei giorni di CastellinAria: si vedano a tal proposito anche la restituzione del laboratorio Bruta a cura di Dynamis, e le interviste della rassegna “Il Vicolo del critico”.
Se si potesse mappare il movimento degli undici partecipanti al laboratorio Intrecciare sguardi si vedrebbero tracciate sul foglio le vie di Alvito. Poche, in verità: l’orografia del luogo, in salita tra la vetta di Castello Cantelmo e la Valle di Comino, dà al borgo la forma tipica degli abitati di mezza costa, coi caseggiati in fila indiana lungo una o più via parallele, rammagliate da tornanti o da ripidissimi vicoli. Disegnando petali più o meno ampi, quelle tracce partirebbero da e tornerebbero in un punto: la biblioteca nella sala consigliare del paese, dove l’inchiostro si spanderebbe un poco a segnare un polo, una sorta di piazza in questa mappa germinale, simile ma non uguale a quella geografica (si sarebbe tentati di scrivere “reale”: ma dopotutto, può una mappa essere più reale di un’altra?). Lì è dove Renata Molinari ha svolto alcuni momenti “frontali”, fornendo indicazioni sempre preziose per gli esercizi di osservazione in cammino. Quella virtuale mappa, dunque, si arricchirebbe di altri punti più larghi, macchie di inchiostro proporzionali al tempo di una sosta. In quei punti di Alvito qualcosa ha parlato a qualcuno: lo spazio è carico di segni che, trascritti, possono fornire i nodi per un racconto. Ma fra il racconto e quei segni sta un tempo di osservazione che ha qualcosa di scientifico: Renata Molinari invita alla precisione come fedeltà al luogo, che si tradurrà poi, attraverso il processo della scrittura, in onestà verso lo spettatore. E se è vero che quella scrittura, qui, è stata articolata nei suoi passi aurorali, ben lontani dal momento pubblico dello spettacolo, nei giorni del laboratorio sono stati i partecipanti stessi gli spettatori del processo. Il che ci introduce a una verità del teatro che Molinari ha ricordato ogni giorno e che si può riassumere nella parafrasi delle parole brechtiane: l’unità di misura del teatro è due. Da un primo esercizio di osservazione individuale, lo sguardo è stato inseminato dal confronto con un esercizio a coppie, nel quale i partecipanti hanno vicendevolmente portato l’altro a visitare lo stesso spazio della prima osservazione. Lì il reale, quello fisico del luogo e quello delle parole scritte dall’altro, si era già fatto memoria, la scrittura già ri-scrittura. Gli stessi segni, vagliati da occhi diversi, impongono la fatica della traduzione, la sfida di una relazione tanto più intima quanto fugace (il tempo verticale della festa, di un festival), esercitata verso luoghi e persone sconosciute. Gli esercizi di Renata Molinari illustrano il pericolo dell’amore, ovvero della relazionalità pura, svincolata nella scrittura collettiva ed analitica dai romanticismi personali che l’amore possono, al più, scimmiottare. Elementi che permettono di intuire la possibilità di un teatro, o se non altro di una drammaturgia, che non si limiti a parlare d’amore, ma che lo porti tutto dentro la scena come materia stessa della parola. Messi in pagina, le osservazioni incrociate (sempre brevi, per dare campo alla precisione piuttosto che al narcisismo della prolificità) suggeriscono lo schema di un testo a fronte, o già uno scambio di battute profondamente concatenate. Ma è con l’esercizio successivo che si sono gettate le basi più esplicite per un dialogo: il gioco del “qui, dove…”, in cui la densità della precedente descrizione circolare, analitica, si è sciolta lungo un asse temporale. In ognuno dei luoghi incontrati, i partecipanti sono tornati per cogliere la possibilità di un passato, per saldare il tempo allo spazio: “qui, dove qualcosa è successo”. È nata così la fotografia di un’azione, che può mettere in moto un racconto. Ma è ancora un’azione infinitesimale, particolare, precisa, inscritta nello spazio osservato, ovvero in un’immaginazione immanente, che è tutta nelle cose. Il tema dell’onestà diventa quindi un’esigenza complessa, una faccenda certosina: calibrare le parole sposandole ai dettagli. Si aprono domande cui è impossibile rispondere una volta per tutte, ma che configurano nodi fecondi per il lavoro drammaturgico, attoriale, registico. La modalità del gioco pone in effetti la scrittura a contatto immediato col ruolo dell’attore: chi scrive osservando e camminando agisce nello spazio; di più, nell’osservare a quattro occhi, ogni parola è mediazione di due, nasce in sé con la relazione dentro. Sentiamo risuonare le parole di Grotowski: «Si può leggere nei testi antichi: Noi siamo due. L’uccello che becca e l’uccello che guarda. Uno morirà, uno vivrà. Ebbri d’essere nel tempo, preoccupati di beccare, ci dimentichiamo di fare vivere la parte di noi stessi che guarda. C’è allora il pericolo di esistere soltanto nel tempo, e in alcun modo fuori del tempo. Sentirsi guardati dall’altra parte di sé, quella che è come fuori del tempo, dà l’altra dimensione […] Si tratta di essere passivo nell’agire e attivo nel vedere (al contrario delle abitudini). Passivo vuol dire essere ricettivo. Attivo essere presente […]» (Testi 1968-1998).
Nella fase finale del laboratorio si è giocato lungo due possibili tracciati drammaturgici: la composizione di mappe individuali, in cui il materiale collettivo ha operato come archivio di sguardi o il montaggio di un coro, in cui le voci hanno dato corpo ai segni scritti. Due lavori complementari, sospinti rispettivamente verso lo sviluppo narrativo e il lavoro attorale. Il risultato è già un vero e proprio lascito al paese di Alvito, una memoria possibile per una comunità che, nel primo meridione, immersa in quei territori interni che difettano di infrastrutture e strutture pubbliche come i teatri, necessita di sguardi. Sguardi che siano ampi, pre-teatrali, che non cerchino storie, tradizioni o altre finzioni: che non cerchino niente altro che sé stessi e il proprio altro, le parole.
Grazie a Renata Molinari e ai partecipanti al laboratorio, che ci hanno lasciato intrecciare il nostro sguardo ai loro. In ordine alfabetico: Severino Antonelli, Patrizia Anzini, Maria Lucia Bianchi, Giuseppe Contarini, Manuel di Martino, Ilaria Fantozzi, Giulia Germani, Gianluca Giaquinto, Giulia Lombezzi, Laura Nardinocchi, Rebecca Ricci.