Carrozzeria Orfeo // Cous Cous Klan
Un racconto ironico e al contempo meditativo sull’amore e sulla sua necessità, anche in un contesto di degrado e di forte disagio sociale in cui la priorità sembra essere quella della sopravvivenza: è Cous Cous Klan, della compagnia Carrozzeria Orfeo per la regia di Gabriele Di Luca, che abbiamo visto al Teatro Bellini di Napoli, dov’è andato in scena dal 7 al 16 dicembre.
Quattro attori sul palco: Caio, Achille ed Olga, tre fratelli che vivono in una roulotte e condividono una vita di stenti; e Mezzaluna, un musulmano immigrato, mancato fondamentalista islamico e compagno di Olga. Le relazioni tra i quattro sono regolate da rapporti di sopportazione misti a episodi di ostilità, il tutto ambientato in un ipotetico futuro in cui l’acqua è stata privatizzata e la società divisa tra chi sta dentro o fuori dalla “recinzione”: i salvi, ricchi ed egoisti da una parte, i diseredati dall’altra. La quotidianità dei quattro personaggi, ciascuno arenato nella propria personale disillusione che trova soprattutto corpo nel nichilismo di Caio (ex-sacerdote arresosi ormai all’idea di un dio vendicativo) e nel desiderio di Olga di avere – sebbene in età avanzata – un bambino dal proprio compagno, è interrotta dall’arrivo di Aldo, un uomo separato e per questo ridotto in miseria. A sconvolgere del tutto l’ordinarietà della banda con dinamiche inizialmente incomprensibili è però l’apparizione di Nina, una ragazza che, realtà, con la sua irruenza, che non tiene conto della mancata accoglienza che le riserva il gruppo, non chiede altro che aiuto; una brutta vicenda personale la conduce a sfondare le porte della diffidenza dei cinque offrendo a questi, al contempo, la via di fuga verso una possibilità di riscatto sociale (ma soprattutto personale), un’opportunità di affrancamento dalla propria chiusura divenuta ormai isolamento.
Queste dinamiche vanno declinandosi in episodi di xenofobia e omofobia, compaiono persino allusioni alla prepotente supremazia dell’Occidente sugli altri Paesi: in questo spettacolo non viene tralasciato nulla delle ideologie più violente degli ultimi decenni e tutto viene affrontato e mediato nell’incontro con Nina, che sul finale rivela la sua incorporea identità di anima in fuga, in cerca di giustizia. La scomparsa di Nina però, benchè lasci profonde tracce di cambiamento in ciascuno dei personaggi incontrati (divenuti poi compagni di sorte) fa ripiombare i cinque nella miseria umana in cui sono stati trovati.
Lo spettacolo fa uso dell’ironia per dipingere in realtà un quadro di desolazione e abbandono. Tutto è accompagnato da una certa dose di blasfemia, funzionale all’esplicazione della drammaturgia stessa, ma che a tratti fa storcere il naso pur considerandone l’aspetto grottesco. Nina, personaggio dapprima scomodo e indesiderato cerca un contatto con ciascuno di quelli che la società “dentro la recinzione” ha bollato come reietti e lo fa capovolgendoli nella loro inerzia, tirandoli fuori dalla propria comfort zone. Nina è in altre parole un germe, si insidia nelle carni, infetta e se ne va. Ciò che ne risulta è una fenditura che lascia intravedere una possibilità di redenzione: Caio si apre alla fiducia negli altri, Achille incontra un amore fino ad allora solo immaginato, ed Olga (come si può facilmente intuire) ritrova in Nina stessa la figlia perduta anni prima con un aborto. Tutto questo però lascia il tempo che trova: il tempo di sentirsi famiglia, di rischiare il tutto per tutto per dar giustizia a un’amica brutalmente offesa e il tempo di guadagnare migliaia di euro che cambierebbero la vita di ciascuno, ma poi, quando l’amore se ne va, resta l’astio e l’ostilità, quella futile, quella che distrugge il bottino recuperato con un furto per un misero goccio d’acqua sporca e per l’orgoglio che non abbassa la testa nemmeno di fronte all’unità ritrovata. L’arbitrio insomma tiene le redini della sorte del gruppo, la libertà sfacciata di vivere in miseria, contraddizioni e limiti d’ogni sorta diventa anche la libertà di scegliere di restare nella stessa identica situazione di svantaggio e privazione. I costumi laceri degli attori, le roulotte sgangherate e l’auto semi-carbonizzata sul fondo servono la drammaturgia nel suo dispiegarsi. Allo stesso modo potrebbe dirsi dell’acqua che sul finale arriva in apparenza a pulire la pochezza umana dei personaggi, ma in realtà essa è il suggello della sconfitta e della resa definitiva. Il bene prezioso concesso soltanto ai pochi eletti della società viene adesso elargito anche fuori dalla recinzione, lì dove la comunanza di destini e la somiglianza tra le solitudini avrebbero potuto concimare la speranza di un’umanità diversa, e che invece non appare adesso molto dissimile da quella che la discrimina.
COUS COUS KLAN
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
scene Maria Spazzi
costumi Erika Carretta
musiche originali Massimiliano Setti
con Angela Ciaburri, Alessandro Federico, Pier Luigi Pasino, Beatrice Schiros Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi voce fuori campo Andrea Di Casa
luci e direzione tecnica Giovanni Berti
una coproduzione Teatro dell’Elfo, Teatro Eliseo, Marche Teatro
in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana e Corte Ospitale – residenze artistiche