“Call Me By Your Name” o sullo stato di grazia dell’amore
Nel suo calmo e ritmico fluire, Call Me By Your Name è un organismo filmico che pulsa in simbiosi col lento torpore dell’estate calda dell’83, della campagna cremasca che potrebbe essere tutti i luoghi e nessuno, del tempo azzerato, o che si vorrebbe azzerato, della bella stagione italiana, delle piazze vuote e quasi mute, della pelle esposta al sole, di due corpi pronti a farsi uno, Elio e Oliver, Oliver ed Elio: uno figlio adolescente di una borghesia accademica open-minded, poliglotta e meticcia, «Jewish but also American, Italian French – dice lui – an atypical combination», l’altro dottorando americano ventiquattrenne, icona imperfettibile di self-confidence, intelligenza, sensualità, replica in carne ed ossa dei corpi classici proiettati in diapositiva dal professore e padre di Elio, o di quelli ripescati sorprendentemente dalle acque del Lago di Garda.
Oliver: – What does one do around here?
Elio: – Wait for the summer to end.
Come l’estate, il film incede lentamente e, di continuo, si ferma in sacche sospese, insieme ai suoi protagonisti che interrompono le corse in bicicletta per stendersi al sole o chiedere un biccher d’acqua a sconosciuti generosi.
Inizia con l’arrivo di Oliver, esausto, troppo alto per stare in foto tutt’intero, bellissimo, presenza aliena e sconvolgente, e con Elio che lo osserva dalla finestra, trasformandolo immediatamente nel suo, solo suo, oggetto di sguardo. Prosegue ancora con Oliver, rinvigorito, sicuro di sé, bello in modo sempre più esasperante, che prende possesso dell’intero spazio vitale (e visivo) di Elio risemantizzandolo, riempiendolo di attrazione, passione, desiderio. E così evolve, senza contrasti, scandito da annoiate nuotate al fiume, pezzi suonati al pianoforte, elucubrazioni su Eraclito, danze serali nella balera del paese, letture assonnate, accompagnate dalla pioggia, e segnato dai due corpi che erompono, dalla pelle che si increspa turgida al contatto con le mani, dalla scoperta del proprio sesso mentre si cerca quello dell’altro, nascosto in un costume lasciato incustodito, nel quale Elio affonda con la testa, respirandone gli umori.
Se l’azione resta sospesa, come appisolata al sole, infatti, il desiderio si concretizza in una graduale ma inarrestabile esplosione di fisicità. L’amore tende a una volontà di fusione e passa attraverso un tentativo di identificazione: avere Oliver significa essere Oliver.
«Did I want to be like him? Did I want to be him? Or did I just want to have him? Or are ‘being’ and ‘having’ thoroughly inaccurate verbs in the twisted skein of desire, where having someone’s body to touch and being that someone we’re longing to touch are one and the same?».[1]
Così, Elio seduce Marzia perché Oliver seduce Chiara sulla dance floor. Elio perde la verginità con la stessa Marzia perché Oliver diventa ai suoi occhi un “traditore” (dopo il primo bacio, sembra smettere di dedicargli attenzioni) e lui stesso vuole tradirlo. Più tardi ancora, Elio fa l’amore con Marzia, nella polverosa soffitta, perché Oliver gli ordina di crescere, di diventare com’è lui, prima di giungere a ciò a cui entrambi tendono («Grow up. I’ll see you at midnight»).
Solo allora, a mezzanotte, tempo sospeso tra due giorni, tempo fuori dal tempo e dunque, quasi markerianamente, tempo del desiderio, i loro piedi si sovrappongono, i corpi si uniscono, i tratti si confondono, l’amore si sublima, la fusione avviene. Ma a noi è dato di vedere solo il dopo. «Call me by your name and I’ll call you by mine» sussurra Oliver, innescando un processo di scambio reciproco potenzialmente senza fine. La merce da scambiare è ovviamente il Nome Proprio, nell’accezione che Seymour Chatman gli conferisce di “resto prezioso” ovvero «quintessenza dell’individualità, […] localizzazione ultima della personalità, non qualità ma luogo delle qualità», quanto di più intimo insomma si possa barattare.[2]
Dopo la mezzanotte fatidica, il film diventa il commovente tentativo di suggerire questa miracolosa fusione che coincide con l’amore nel suo stato di grazia: Elio si appropria della camicia di Oliver, quella che gli aveva visto indossare al suo arrivo, Oliver dimostra di non voler arrestarsi nemmeno di fronte al seme di Elio, nascosto con vergogna in una pesca, per far sua l’intimità dell’altro, tutto contribuisce a visualizzare «what happens when two beings need, not just to be close together, but to become so totally ductile that each becomes the other. To be who I am because of you. To be who he was because of me. To be in his mouth while he was in mine and no longer know whose it was, his cock or mine, that was in my mouth».[3]
«Parce-que c’etait lui. Parce-que c’etait moi» dice non a caso il padre di Elio nel finale, mettendo a cappello di una scena straordinaria un riferimento al famoso saggio sull’amicizia di Montaigne e realizzando con esso la sintesi più significativa di quel confondente processo di scambio e fusione di cui il film si è fatto miracolosamente testimone.
Film d’amore che si fa dunque – come accade poche, pochissime volte – film sull’amore, sullo stato di grazia dell’amore. Opera di pure sensazioni, dotata di un equilibrio unico e prezioso, lontano forse dai dettami della restante filmografia di Luca Guadagnino, frutto piuttosto del felice crossover di suggestioni diversissime, amalgamate in un miracolo cinematografico irripetibile in cui la sensibilità (omo)erotica di James Ivory (autore della sceneggiatura) fiancheggia le atmosfere di un Bertolucci purificato dalla morte attraverso l’incontro con Renoir (quello di Partie de campagne) e Rohmer, in cui Joe Esposito e i brani inediti di Sufjan Stevens convivono con Bach o, come scherza Elio in uno dei primi, timidi e silenziosi approcci ad Oliver, con un Bach riletto da Liszt e reinterpretato da Busoni.
È certamente un percorso di crescita – quello di Elio – compiuto attraverso la fusione di due corpi che si fanno uno, attraverso un’amicizia che va protetta per la vita, un cuore che non va sprecato, un dolore che non va seppellito, sublimato nello sguardo in macchina finale che, come quello dell’Antoine Doinel dei Quattrocento colpi, parla di una storia ancora tutta da scrivere.
[1]André Aciman, Call Me By Your Name, 2007
[2]Seymour Chatman, Storia e Discorso, 1981
[3]André Aciman, Call Me By Your Name, 2007