Cacciatori di stelle: come Jacques Tati dà voce alle necessità di un territorio
Riflessioni post-filmiche: da Mon Oncle a una visione del panorama cinematografico del territorio congiunto di Napoli e Caserta.
Venezia, Torino e Milano si sta consolidando come un trittico. Il panorama festivaliero italiano è una immaginaria cintura di Orione che unisce il Nord Italia con stelle meno popolari a Bologna, Udine e Roma nel centro, nulla di realmente consistente nel Meridione. È necessario un telescopio per individuare realtà di grandissimo interesse pur essendo di portata inferiore: Bari, Taormina e piccoli altri sprazzi sparsi qua e là a sud della capitale italiana. Una situazione poco gradevole.
In Campania e in particolare nell’area metropolitana di Napoli, che a suo modo include anche Caserta, agganciata al capoluogo da una quasi ininterrotta sfilza di piccoli comuni, possiamo scegliere di essere ottimisti se decidiamo di accendere il radar. Abbiamo un festival, il Napoli Film Festival, il cui programma continua a essere difficilmente reperibile e/o comprensibile nella sua interezza a 5 giorni dal suo inizio, ma in realtà la vita cinematografica locale, quella targata sotto la voce “eventi”, è un essere vivente.
Un cuore a Napoli che pompa sangue nei suoi arti periferici o negli organi centrali, respira con piccoli eventi sparsi durante il corso dell’anno, pubblicizzati sui cartelloni stradali o rinchiusi nelle università o istituti stranieri sotto la forma di cineforum, o nelle sale piccole e grandi, centri sociali e multiplex, con presentazioni, letture e così via. Fu la Federico II a ospitare Frederick Wiseman (Oscar alla carriera nel 2017), è nell’università L’Orientale che si tengono cineforum sulla produzione in swahili, indonesiano o si discute di cinema cinese col professor Li Daoxin dell’università di Pechino.
Abbiamo perso l’appuntamento con O’Curt, ma resta invece un festival perfetto come l’artecinema, dove attraverso la settima arte si raccontano le tre arti visive: pittura, scultura e architettura. Perfetto dunque perché laddove la forma cinematografica fallisse nello spiccare, vivrebbe dell’enorme interesse di tutto ciò che contiene e quest’anno avrà il nome di Marc Chagall, Frank Gehry, Wa Shan, Jan Fabre, Anselm Kiefer e tanti altri artisti del mondo contemporaneo e non che varrà sempre la pena di scoprire. Sempre.
Loro inizieranno il prossimo 5 Ottobre con un programma splendido e così presto riapriranno i cineforum, dando opportunità ai campani di districarsi tra offerte cinematografiche di ogni livello – non possiamo dimenticare di citare l’ottima offerta dell’Asilo Filangieri o dell’Astra Doc – per tutto l’anno. È un enorme festival anarchico e sconnesso, un ribollire di desiderio e passione cinematografica in attesa di esplodere, come il caro e temuto Vesuvio, simbolo e paura del territorio settentrionale della Campania.
Questa riflessione parte da una proiezione tenutasi lunedì 19 settembre (con replica il giorno successivo) al cinema San Marco di Corso Trieste a Caserta, la sala più antica della città, targata 1958. Schermo unico, riacceso al pubblico da un anno, ma rivitalizzato per la stagione 2016/2017 con l’assunzione a direttore artistico di Francesco Massarelli – impegnato in passato col Cineclub Vittoria e il cineforum del Duel Village -, partito con la seria intenzione di trasformare la sala in polo culturale del centro città.
Film scelto per iniziare il cineforum, primo rappresentante ufficiale e programmato delle iniziative a tema cinema del San Marco, è stato Mon Oncle di Jacques Tati, un’opera che come il suo protagonista comunica meglio di tante parole. Cinema invecchiato quasi 60 anni, per lo più silenzioso – perché muto non si può certo definire – e con una comicità senza pari nella storia del cinema, nonostante i parallelismi con Buster Keaton e Charlie Chaplin (e perché non anche Raj Kapoor?) si sprecano.
Serata e pellicola – proiettata in digitale – che a loro modo possono essere presi a manifesto di mancanze e pregi dell’enorme e silenziosa offerta cinematografica locale. L’incomunicabilità tra Monsieur Hulot, conosciuto qualche anno prima ne Le vacanze in bianco e nero, con la plastificata alta classe mostra quella separazione tra pubblico e mondo del cinema che nella nostra regione dovrebbe svanire nel nulla, poiché la produzione è in aumento e la comunità di filmmaker è in forte, fortissimo fermento.
Mancano gli spazi, i tempi di connessione tra un mondo e l’altro, si ritrovano al buio nelle sale, appuntamenti da segnare sull’agenda sparsi qui e lì, senza una continuità, senza un momento di incontro stabile e localizzabile. È esattamente quello a cui aspira Massarelli quando si augura che al termine della proiezione il corso venga “invaso”, perché il film, come Tati stesso viene citato in un breve documentario su Playtime visto dopo Mon Oncle, dovrebbe cominciare al momento dell’uscita dal cinema. Il cinema va oltre i 90-120 minuti.
Perdiamo un tesoro nella frammentarietà. Perdiamo la felice sensazione di sentire gente uscire fischiettando il motivetto di Mon Oncle composto da Alain Roman, di immergerci nell’entusiasmo dopo il film. Fuori dal San Marco, non pieno, ma quando hai circa 800 posti, anche solo 200 per un film di Tati sono un miracolo, e con un gran numero di giovani, a mezzanotte si poteva sentire questa grossa assenza: perché cotanta passione ancora non è stata colta e trasformata in un luogo di scambio, perché al Cinema da noi manca una voce forte e unitaria?
Le persone soddisfatte erano la maggioranza, le risate sincere e capaci di oscurare i pareri negativi così come le brevi “fughe” occasionali di chi entrava e usciva perché annoiato. La componente umana c’è, l’arte, il cinema e l’intrattenimento pure. Il futuro dovrà solo decidersi e dichiarare se vuole ancora un pubblico di cacciatori di eventi o se è forse giunto il momento di trasformarci in Rigel, la stella più luminosa della costellazione di Orione, ginocchio sinistro del gigante che ci osserva dall’alto, a far buona e felice compagnia alla più stabile cintura settentrionale.