Buffalo Boys
Il western è stato uno dei macro-generi che ha dominato il panorama cinematografico, principalmente hollywoodiano, nel periodo del cinema cosiddetto “classico”. Il fascino del vecchio west, caratteristica preponderante di un’America secessionista e colonialista, è diventato negli anni un’icona (un po’ come nel cinema muto i film italiani sul mito e sulla storia dell’impero Romano) e una grande forma di mercato per i cineasti statunitensi verso il mondo, dove il plot principale è la lotta tra i nativi americani/indiani e i colonialisti bianchi, i puritani.
Senza dilungarsi, con l’avvento del cinema postmoderno e la fine delle grandi narrazioni, di conseguenza avviene anche la caduta dei generi cinematografici tradizionali, e oggi il western è (purtroppo) diventato così un elemento esterno o di completamento della narrazione, o semplicemente un’ambientazione costruita solo per l’estetismo e l’iconografia della pellicola.
Nascono quindi gli ibridi, film di ambientazione western ma che allo stesso tempo non sono western classici e/o spaghetti-western alla Sergio Leone, come negli ultimi anni i vari The Hateful Eight di Quentin Tarantino, Il Grinta e The ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen, e, citando anche una serie televisiva, Westworld di Jonathan Nolan.
In questa categoria potrebbe rientrare benissimo anche il nuovo film del giovane regista e sceneggiatore di Singapore Mike Wiluan; Buffalo Boys è infatti la storia di una vendetta, tipicamente da far west, di due fratelli indonesiani che, tornati in patria dalla California nel 1860, vogliono vendicare insieme allo zio, una sorta di mentore e deus ex machina, la morte del padre, sultano del territorio locale, ucciso dal colonialista olandese Van Trach, il quale ha messo in schiavitù la popolazione per la raccolta del riso, preziosa risorsa e fonte di mercato per il Regno Unito dei Paesi Bassi.
A differenza dei film-ibridi citati, Buffalo Boys non (ri)costruisce l’ambientazione western sul suolo americano, ma la trasferisce nell’isola indonesiana di Jawa, diventata per l’occasione una città fittizia che mischia influenze occidentali ed orientali, guerriglia nei saloon a suon di pistole e arti marziali.
L’ambientazione western originale viene presentata solo all’inizio e sembra che segua “fisicamente” i personaggi fino al ritorno a casa. L’oriente viene occidentalizzato; il che sarebbe sensato di primo acchito, se il film fosse ambientato nell’era moderna della globalizzazione, non chiaramente nella seconda metà dell’800.
La narrazione si basa sulla vendetta e si collega direttamente al Grinta dei Coen, oltre che a tante altre pellicole del genere. Vendetta che non diventa solo personale, ma collettiva della popolazione che nel film e in primis nella storia reale è stata oppressa dal sanguinoso fenomeno del colonialismo, dove la schiavitù era anche peggio della morte. Così i due fratelli diventano dei paladini, degli eroi locali, delle leggende del far west da narrare la sera nei saloon o davanti al camino dai genitori ai propri figli.
Cowboys orientali che non cavalcano cavalli, bensì, come accenna bene il titolo, bufali, gli animali locali più diffusi; occidente e oriente si incontrano e si intrecciano, fanno parte di un unico mondo, che sembra così tanto globalizzato da essere contemporaneo.
L’elemento western non è solo iconografico ma anche nella tecnica di regia di Wiluan, che non poteva mancare sia del famoso piano americano, caro al cinema western, sia delle ritmiche carrellate durante gli inseguimenti, sia dei primissimi piani e del dettaglio delle figure umane, costruendo la pellicola nel complesso con una regia occidentale ed eterogenea, godibile soprattutto nelle scene action.
Mancano gli indiani, ma a far la parte dei cattivi ci sono i colonialisti olandesi (che, a differenza dei nativi americani, lo erano realmente), sottolineando con una delicatezza emotiva che solo un regista orientale poteva fare, la sofferenza e la voglia di libertà, insieme ad un profondo senso di angoscia e di frustrazione, di un popolo che è rimasto inerme e indifeso per troppo, troppo tempo.
In sintesi il film di Wiluan ha una narrazione nella trama lineare e decisa, determinata e poco sorprendente, cruda e realista, unita ad una struttura filmica ibrida, postmoderna, che crea un coinvolgente e scorrevole pastiche dove scenografia e regia la fanno da padroni.
La scelta di togliere l’ambientazione western dalla sua cornice originaria e di portarla nell’emisfero opposto, potrebbe essere dipesa da vari fattori: dalle passioni personali di un regista sì orientale, ma di influenze e di produzioni occidentali, e/o da una sorta di componente mitica del western, che è arrivato fino in oriente grazie principalmente al cinema, l’arte per eccellenza della globalizzazione, dove da sempre ci sono interscambi culturali e tecnici fra registi di tutto il mondo, già dalla sua era classica; come dimenticare ad esempio un film come Late Spring di Ozu, una storia culturalmente giapponese ma con un’atmosfera e una regia molto occidentalizzate.
Fra tutte queste caratteristiche positive e apprezzabili, va in penombra la sceneggiatura, che tranne per qualche sporadica battuta non riesce a essere uno dei pregi della pellicola, sviluppandosi in maniera scolastica ed estremamente stereotipata, e non aiutando un’ambientazione ibrida e a tratti distopica, che poteva essere una fucina di altrettante idee narrative.
Wiluan, che è ricordato fra gli altri per la produzione di Hitman, il film sul famoso videogame, torna alla regia con un prodotto in parte personale, patriottico, che riprende un’idea di cinema strutturalmente già esistente ma che non manca di elementi soggettivi e originali, così che Buffalo Boys sia drammatico e allo stesso tempo adrenalinico.
Il mito della storia dei fratelli indonesiani, che si innesta nei personaggi del film e nello spettatore, è lo stesso mito che il western grazie al cinema ha alimentato su generazioni di registi e di pubblico, e che seppur in forme ridotte ed effimere, viene ripreso ancora oggi. Perché è la cinepresa, o meglio il cinematografo, che è stato e sarà sempre la macchina del tempo per rivivere epoche come il far west, per apprezzarne fascino e avventurosità, ma anche dall’altro lato della medaglia per mettersi nei panni degli indiani o in questo caso degli indonesiani, e riflettere sulle peculiarità e sulla sfrenata violenza di un mondo che è (anche) una delle “radici” del male umano.