In-Box Verde: sogni, fiabe e nuove drammaturgie su palcoscenici multimediali
Focus pubblicato in collaborazione con eolo | rivista on line di teatro ragazzi
Premio In-Box. Il nome fa venire in mente le scatole di cartone, e la facoltà di conservare e tenere insieme oggetti che altrimenti resterebbero sparsi o potrebbero andare perduti. Un paragone che ha un suo perché, se si tiene conto del fatto che la rete teatrale In-box è un modello in Italia, collaudato e funzionante, che consente a più di sessanta operatori teatrali e direttori artistici sparsi sul territorio nazionale di darsi appuntamento a Siena – grazie alla compagnia Straligut e all’acume del direttore artistico Fabrizio Trisciani – per conoscere una rosa di pochi ma selezionati spettacoli finalisti, e offrire a tutti la possibilità di conquistarsi un po’ di spazio nelle Stagioni teatrali sul territorio nazionale l’anno seguente.
Senza sbarramenti anagrafici (diversamente dall’80% dei bandi teatrali in Italia) il Premio In-Box, grazie alla rete che lo comprende, rappresenta una possibilità reale per le compagnie emergenti di rendersi visibili a un mercato non facile, e, forse, di scrivere persino la propria storia, incontrando un successo più duraturo. Ogni replica ottenuta attraverso il Premio (anche una compagnia non ufficialmente vincitrice può essere scelta) diventa una nuova occasione per entrare in contatto con altri operatori, critici e, in generale, nuovi pubblici.
Negli anni, questa “scatola” magica, per l’edizione 2019 veicolata dall’immagine di un occhio che guarda al di là di buco ricavato da una parete di cartone, è andata migliorando la sua forma, adeguandosi alle esigenze di tutti gli attori del mercato. Se prima era soltanto “virtuale”, e un’ampia giuria di operatori da tutta Italia sceglieva gli spettacoli sulla base delle registrazioni audiovisive che venivano – e lo sono tuttora – caricate integralmente dalle compagnie su una piattaforma online, oggi il Premio In-Box ha sviluppato al suo interno ulteriori fasi di incontro, alcune molto utili anche ai non facenti parte della giuria, come l’Apertura che si è svolta al Teatro dei Rozzi: un momento di scambio tra gli operatori presenti e le compagnie finaliste, durante il quale ciascuno, giurati inclusi, è stato chiamato a raccontare di sé e del suo percorso professionale.
Soprattutto, poi, la direzione artistica ha reputato necessario trasformare la rete, prima soltanto virtuale e metaforica, in realtà. Da qui il rischio di provare ad avviare qualcosa di più grande, il Premio di questi ultimi anni, che ha dato appuntamento dal 20 al 25 maggio nella bellissima città toscana. La fruizione dal vivo ha consentito agli stessi operatori di essere testimoni delle reazioni del pubblico e persino, volendolo, di cercare un confronto diretto con gli spettatori subito dopo la visione.
Forse è per questo motivo che, a un certo punto, comprese le necessità degli operatori, e quindi di vedere spettacoli dal vivo e non in video, quella possibilità di cui si vedevano concretamente, prima, soltanto gli effetti l’anno successivo, non soltanto si è trasformata – anche – in un festival, dove il pubblico può sedersi e godersi gli spettacoli. A un Premio In-Box “Blu” si è andato ad affiancare un Premio In-Box “Verde”, dedicato al teatro ragazzi: quali migliori, sinceri, spettatori dei bambini?
E qui veniamo a noi, e ad alcune domande che non riguardano strettamente il Premio In-Box Verde, ma il genere in sé, l’etichetta critica di “teatro ragazzi”, che – come qualcuno notava in uno di quei momenti pubblici di confronto – aveva convinto negli anni Ottanta, quando, entrata in crisi l’animazione, ha cominciato a essere utilizzata con lo scopo di definire l’operato di alcune compagnie nate da quello stesso bisogno di rivolgersi con lo sguardo verso altri orizzonti, che non potevano essere più racchiusi dentro il recinto linguistico, generico, dell’”animazione”, e che riguardavano in primis lo scopo di mirare a un target differenziato.
Ma chi sono questi “ragazzi” nel 2019? Perché dovrebbero andare a teatro? Di che cosa hanno bisogno questi giovani adulti del domani, oggi, che li vediamo ancora piccoli e senza difese?
Dal 20 al 22 maggio, ovvero nei giorni rivolti alla programmazione di teatro ragazzi, non c’è stato tempo per rispondere a queste domande. Anche se auspicabile, la natura del premio non lo prevede, più spostata com’è verso il fatto concreto della compravendita degli spettacoli. Ma va bene così, è la sua peculiarità. E d’altra parte sarebbero occorse molte giornate per rispondere. Proviamo a sciogliere alcuni nodi, però, attraverso un ragionamento complessivo sui sei spettacoli andati in scena durante questa sezione: Nel castello di Barbablù di Kuziba Teatro (Puglia; una delle compagnie finaliste dell’edizione precedente, fuori concorso quest’anno; lo si potrà vedere in scena al Napoli Teatro Festival il 5 luglio), Cappuccetto Rosso di Zaches Teatro (Toscana), A naso in aria di Schedia Teatro (Lombardia), Storto di InQuanto Teatro (Toscana), Storia di uno Schiaccianoci del Teatro nel Baule (Campania), Kanu della compagnia Piccoli Idilli (Lombardia), Il mulo dell’associazione 4gatti (Lombardia).
Da un lato la fiaba – come in Barbablù e in Cappuccetto Rosso – genere che appartiene all’immaginario infantile, dall’altro, come in Storia dello Schiaccianoci, il racconto di E.T.A Hoffmann (1816), riadattato da Alexandre Dumas, poi diventato il celeberrimo balletto di Cajkovskij di cui tutti abbiamo familiari le melodie.
Questi tre spettacoli, accomunati dall’intenzione di veicolare una storia, e di farlo in modo originale, si sono tutti posti il problema di una cornice narrativa che usa il tema del sogno come luogo in cui possono accadere eventi straordinari. La presenza di una cornice narrativa si fa più debole Nel castello di Barbablù, ma a parte quello, lo spettacolo, in cui la disubbidienza è – al contrario di come spesso si vuole far credere ai bambini – una fonte di conoscenza e di salvezza, rimane suggestivo per invenzioni sceniche e atmosfere acustico-visive.
Sicuramente merita una menzione speciale Cappuccetto Rosso di Zaches Teatro, che ha proposto con audacia al pubblico uno spettacolo con molteplici piani di lettura, diversi per bambini e adulti. Interrogandosi sulle fonti, la drammaturga Luana Gramegna ha realizzato una partitura onirico-performativa che invita all’abbandono attraverso la visione di quadretti di vita familiare, tra suoni e movenze, ombre e luci che incatenano lo sguardo. Qui il tema del sogno compensa la responsabilità di veicolare un sottotesto rischioso, che è sì presente nella fiaba di Perrault, ma a un livello di analisi più profondo: quello dell’esplorazione, da parte della bambina, di un contatto più intimo con un corpo sconosciuto, incarnato dal lupo incontrato lungo il suo cammino. Una via verso la pubertà, forse, quel delicato processo di crescita che la porterà a essere, al termine dello spettacolo, dopo aver affrontato il bosco e le intemperie, la donna adulta che aveva sognato di diventare. Innegabile il lavoro poderoso dietro lo spettacolo, adatto a un pubblico di bambini, purché guidati: tutto si gioca sull’impianto visivo, sulla dialettica fra tenebra e luce, e quindi sull’introspezione del personaggio, che si muove con precisione chirurgica in questo spazio quasi bidimensionale, un paesaggio emotivo da cui poi cerca il distacco scendendo in platea, proprio come dal nucleo originario familiare si cerca, durante l’adolescenza, la separazione. Peccato che sia mancato, proprio in questo caso, il consueto dialogo con la compagnia dopo lo spettacolo (che pure era previsto da programma), sarebbe stato curioso approfondire la ricezione del pubblico più giovane, anche perché è un lavoro, questo dei toscani Zaches, che non prova a fare leva su codici che tradizionalmente piacciono ai bambini (cartoni animati, fumetti, o comunque colori vivaci).
Pur indirizzandosi a un target molto diverso, quello degli adolescenti, fa suoi proprio quei codici, Storto di InQuanto Teatro, già vincitore del Premio Scenario Infanzia 2018, una sorta di live comics in American style, che racconta con un ritmo tipico delle serie televisive la storia di due amici uniti dal desiderio di evasione (interpretati da Elisa Vitiello e Davide Arena). Pensando alla possibilità di proporsi come alternativa al linguaggio, a volte persino bulimico, di quello che un tempo si chiamava il piccolo schermo, ricade nel tranello di far uso di quegli stessi espedienti e stilemi. Nella stessa contraddizione sono ricaduti anche A naso in aria di Schedia Teatro e Il mulo dell’Associazione 4gatti. Soprattutto il primo dei due, nato per rileggere la città e il contesto urbano con occhi “altri”, proprio come se fosse il testo di una poesia, indugia in particolar modo su proiezioni video d’effetto, che rappresentano il passaggio delle stagioni, sfondo degli incontri, forse non casuali, tra due solitudini.
Il mulo, ovvero la storia del Biagio e del Chicco ricorre a strumenti più tradizionali, e prova a narrare la guerra attraverso gli occhi di un mulo. Interessante l’utilizzo delle ombre per mostrare quel che, come nella tragedia greca, non poteva essere mostrato, prestando il racconto all’immaginazione e all’udito. Non convince però l’utilizzo del pupazzo, per il personaggio del mulo, oggetto ingombrante e non pienamente integrato nel quadro visivo (quando lo spettatore guarda l’attore che recita e non il pupazzo, c’è qualcosa che non va). Un po’ di teatro di figura, sempre benvenuto e apprezzato in queste occasioni, c’è stato anche nella Storia di uno Schiaccianoci, del Teatro nel Baule, lo spettacolo per i bambini più piccoli, dai 5 ai 10 anni. Pieno di sorprese, vivace, musicale. Una drammaturgia piuttosto complessa, non facile da seguire, ma che alla fine ha la sua bella morale e trova tutti d’accordo, invitando, da un lato, i bambini a non smettere mai di credere nei sogni, e dall’altro a guardare oltre le apparenze. Narra la storia di un personaggio buffo e pasticcione, lo zio Drosselmayer, inventore di una macchina che trasferisce gli oggetti dalla realtà al sogno, dal reale al virtuale, e di una nipote che sogna il suo schiaccianoci, vittima di una maledizione. Sebbene anche qui, e forse più che altrove, il sogno e lo schermo siano elementi e temi drammaturgicamente centrali, la macchina scenica, strutturata in modo creativo da abili mani, che muovono anche burattini, farebbe venir voglia a chiunque di avvicinarsi per capire come funziona…
A questo punto non resta che lanciare due domande, una oggettiva, l’altra soggettiva. La domanda oggettiva è: per i bambini, a teatro, il video costituisce una sorta di sedativo, di elemento incatenante? Si sta davanti a un palcoscenico come davanti alla tv? E se è così, è giusto o è sbagliato?
Quella soggettiva, invece, è “quanto abbiamo realmente bisogno di insistere, nel cosiddetto teatro ragazzi, su apparati scenografici multimediali, proprio oggi che forse occorrerebbe staccarci un po’ dai black mirrors per tornare a guardarci negli occhi?”.
Vincitore su tutti, Kanu della compagnia Piccoli Idilli è uno spettacolo che si pone linguisticamente come una valida alternativa a qualsiasi altro mezzo di intrattenimento. Un gioiello di spettacolo, in cui si riscopre il bisogno dell’andare a teatro, ed è il regalo più grande che ci fa il regista Filippo Ughi, catapultandoci in uno stato di comunione universale con l’attrice e danzatrice africana (tra l’altro bravissima) Bintou Ouattara e con un organico strumentale fenomenale, piccolo ma essenziale, composto da strumenti africani (kora, gangan, bara e calebasse), mostrati e presentati al pubblico subito dopo la performance. Musica dal vivo, quindi, danza, espressioni di coralità, un solo abito bianco che dà forma e anima a più personaggi. Un antico mito africano, una storia d’amore malinconica raccontata con le tonalità lievi dell’Africa. E umanità, senso di ariosa gratitudine. Kanu è un’esortazione all’armonia, alla vita autentica. Un invito ad amare e apprezzare tutto ciò che la vita ci offre. In qualche modo, Kanu è la risposta. La risposta a quello di cui il teatro, oggi, ha davvero bisogno.