Bob Dylan @ Arena di Verona
L’uomo dal tamburino più famoso del mondo, che bussava alle porte del Paradiso e dal “carisma e sintomatico mistero”, ha appena concluso le sei tappe italiane del suo Never Ending Tour, che, come suggerisce il titolo, si ripete ad infinitum dal 1988. Alla veneranda età di 76 anni, Bob Dylan riesce a stregare i diecimila fan giunti per lui nell’Arena di Verona in una serata insospettabilmente calda di fine aprile. Nonostante il numero elevato, l’atmosfera – complice le luci soffuse e gradevolmente tenui – è straordinariamente intima. Bob è un cespuglio di capelli dietro il suo pianoforte acustico Yamaha, unico strumento che si concede ancora il piacere di suonare. La sua storica (e oramai trentennale) band lo segue a ruota per l’intera durata della performance – un’ora e trenta senza interruzione alcuna: Dylan parla esclusivamente attraverso le parole del suo sterminato repertorio, dando vita ad un’inconsueta interazione tra lui e il suo pubblico.
L’ascolto riesce a toccare gli altri sensi: il basso di Tony Garnier rimbomba nel petto, l’assolo di batteria di George Receli (“chicca della serata”) infiamma Thunder in The Mountain, l’onnipresente pianoforte corona una serata che sin dalle prime note appare indimenticabile: l’esordio, con Things Have Changed, che nel 2001 conferì a Dylan il Premio Oscar come miglior colonna sonora del film Wonder Boys, ha un arrangiamento accattivante e grintoso, molto diverso da quello originale (ognuno dei pezzi, invero, verrà ri-arrangiato con un quantitativo notevole di differenze rispetto alla versione studio). La ballata Don’t Thik Twice, It’s All Right viene “raschiata” dalla voce dell’artista statunitense con un arrangiamento pregevolmente blues; al pubblico viene concesso soltanto il tempo di un applauso fugace, eppur sentito, poiché le luci si spengono e si riaccendono estemporaneamente. Bob procede ignaro delle convenzioni e dei ringraziamenti: i suoi pezzi “classici” ( che di classico conservano esclusivamente le parole di sempiterna verità) sono come linfa sgorgante vitalità: Highway 61 Revisited, Tangled Up in Blue, Desolation Row, l’ultima delle quali capace di condurci, con il potere dell’immaginazione, verso quella strada di povertà che avrebbe poi cantato anche De Andrè e i cui personaggi Dylan ha bisogno di ricreare (“I had to rearrange their faces and give them all another name”//Ho dovuto riordinare le loro facce e dare loro un altro nome). Momenti altamente e altrettanto sublimi sono quelli dedicati al repertorio jazz di tradizione statunitense (Frank Sinatra, Walter Shumann, Harold Arlen) ai quali Bob ha dedicato nel 2016 il disco Fallen Angels. A mo’ di coorner, con l’asta del microfono di traverso, Dylan ha la capacità di far entrare il suo pubblico in un anacronistico jazz club intonando superbamente Autumn Leaves, Melancholy Mood, Come Rain or Come Shine.
Non è ancora finita: dopo una brevissima pausa, Dylan and his band rientrano sul palco concludendo questo emozionante spettacolo sulle note (irriconoscibili) di Blowin’ in The Wind e su quelle pungenti ma dal tono, azzarderei, più bonario di The Ballad of A Thin Man: il vincitore del premio Nobel firma in modo eternamente encomiabile un’altra pagina del suo diario.