Bertolucci In Vista. L’ultimo imperatore
Presidente della Giuria alla Biennale Cinema di Venezia, Scene Contemporanee celebra l’opera immortale del maestro Bernardo Bertolucci, film per film: L’ultimo imperatore, la consacrazione internazionale e la fine della Cina imperiale.
L’ultimo imperatore segna una svolta per la carriera di Bernardo Bertolucci. Con questo film si consacrò definitivamente al pubblico mondiale. A testimonianza di ciò l’incetta di premi Oscar, ben nove, tra cui Miglior Film, Migliore Regia e Migliore Fotografia.
Tratto dall’autobiografia di Aisin Gioro Pu Yi, From Emperor to Citizen, il colossal di Bertolucci narra la vita dell’undicesimo esponente della dinastia Qing, l’ultimo imperatore della Cina, spodestato per far spazio alla prima grande Repubblica. Ad accompagnare il maestro emiliano, Ferdinando Scarfiotti per la scenografia (secondo lavoro assieme dopo Ultimo tango a Parigi) e Vittorio Storaro, con la sua “teoria dei colori”, alla fotografia.
Strappato in tenera età alla madre, il giovane Pu Yi viene scelto per succedere all’Imperatrice Vedova. Dopo l’incoronazione inizierà per il giovane la lunga strada dell’apprendimento per diventare un degno imperatore. Quelli sono però anni difficili per la Cina che tra tumulti e guerriglie decide di diventare una Repubblica. Con la Guerra Civile, e dopo aver trascorso quasi trent’anni segregato all’interno delle mura della Città, Pu Yi viene detronizzato e cacciato dalla sua casa. Assuefatto di potere, deciderà di schierarsi con il Giappone contro il suo stesso popolo, pur di tornare a rivestire la sua carica.
Ingannato, ridotto a semplice marionetta, l’Imperatore verrà poi arrestato per alto tradimento.
L’ultimo imperatore è differente dagli altri film del regista emiliano: è dichiaratamente biografico e il protagonista appare, a prima vista, privo di spessore psicologico, soprattutto se messo a confronto con uno qualsiasi degli “eroi” cui ci aveva abituato Bertolucci. Forse è anche per questo che alla sua uscita, il critico Vincente Canby accusò il regista di “aver tessuto un’epica senza un eroe epico”. La connessione con la produzione anteriore sembra esile se non ci si sofferma sul fatto che l’opera di Bertolucci consiste essenzialmente in due filoni: riflessioni che riguardano le implicazioni psicoanalitiche del cinema e dell’atto di vedere un film, o meditazioni sul ruolo che l’individuo borghese ricopre alla luce di una prospettiva storica marxiana. Insomma il connubio cinematografico, sempre arduo, di Freud e Marx. Che sarebbe un po’ come dire, l’analisi della psiche all’interno dell’individuo e l’analisi dell’individuo all’interno della società. Ultimo tango a Parigi e Novecento ne sono i due esempi più lampanti. L’ultimo imperatore, invece, appare assai diverso rispetto a questi due, eppure ne eredita i progressi dell’immaginazione cinematica di Bertolucci: la rivelazione della complessa relazione tra il cinema come voyeurismo collettivo e le implicazioni politiche di quella scoperta; l’allontanamento dai dettagli del biografismo (per sopperire alla problematica dell’unione Marx-Freud) per concentrare l’interesse sulla ripetizione, su come essa funziona rispetto alla storia dell’individuo e della società. Difatti può essere proprio la ripetizione il tropo comunque alla problematica freudiana, marxiana e cinematografica.
L’ultimo imperatore poggia la sua esistenza, e la sua complessità, interamente sulle ripetizioni. La scena del vaso da notte costituisce il nesso delle ripetizioni marxiane e freudiane presenti nel film. Questa e la scena dell’incoronazione, entrambe collegabili, in maniera sfacciata, alla scena della seconda incoronazione come imperatore della Manciuria. In quest’ultima Pu Yi fa erigere un “altare del Cielo” in modo che vi sia un chiaro riferimento al suo passato da imperatore d’origine divina ma, invece che di pietra bianca, lo fa costruire in terra battuta. Elemento che richiama la scena del vaso da notte e pone l’accento su quello che il regista chiama “coazione a ripetere, l’onnipotenza del bambino durante l’infanzia”.
Per Pu Yi, queste sequenze di ripetizioni all’interno del film assumono implicazioni sempre più tragiche sul piano personale. Basti notare le differenti emozioni che suscitano gli allontanamenti di tutte le figure femminili della sua vita: prima la madre, poi la badante, infine la moglie (per queste ultime due è identica la reazione; una lunga corsa disperata per cercare di raggiungerle).
Ma la ripetizione più evidente è senz’altro lo stato di prigionia cui è costretto sistematicamente Pu Yi. Prima nella Città Proibita, dall’incoronazione fino a quando non ne è cacciato in età ormai adulta; poi la prigionia dei Giapponesi, velata dietro la nomina di Imperatore della Manciuria; e la prigionia vera e propria per tradimento. Una ripetizione sistematica che verrà interrotta solo in seguito alla completa evoluzione del personaggio, da Imperatore a cittadino. In pratica, quando Pu Yi lascia ogni velleità d’onnipotenza per dedicarsi da una vita umile, simbolizzata dalle sue mani sporche di terra.
Non appena vengono tessute le trame marxiane e freudiane, attraverso il modello della ripetizione, ecco che sullo schermo il volto di Pu Yi diventa sempre più somigliante a quello di Mao (la Storia che si ripete), e al volto di quest’ultimo si sostituisce, metaforicamente, quello del regista, la cui opera è destinata a cambiare la nostra consapevolezza nei riguardi del cinema.
Dettagli
- Titolo originale: The Last Emperor
- Regia: Bernardo Bertolucci
- Fotografia: Vittorio Storaro
- Musiche: Ryuichi Sakamoto, David Byrne, Cong Su
- Cast: John Lone, Joan Chen, Peter O'Toole, Victor Wong, Ying Ruocheng, Lisa Lu, Ryuichi Sakamoto
- Sceneggiatura: Mark Peploe, Bernardo Bertolucci, Enzo Ungari