Bertolucci In Vista. Il tè nel deserto
Presidente della Giuria alla Biennale Cinema di Venezia, Scene Contemporanee celebra l’opera immortale del maestro Bernardo Bertolucci, film per film: Il tè nel deserto, la lotta interiore contro credenze, vita e la crisi delle relazioni tra le dune del Sahara.
William Lee cammina per le strade di Tangeri, batte le dita sui tasti in costante mutazione delle macchine da scrivere di William S. Burroughs, sia sul grande schermo con David Cronenberg che nelle pagine de Il pasto nudo. Pagine alla lontana ispirate alla vita reale di uno dei tanti scrittori della beat generation, alcuni dei quali non poterono fare a meno di cadere vittima del fascino di Tangeri, della vita di Paul Bowles di cui furono ospiti, scrittore americano stanco dei grattacieli e del lavoro estenuante per il teatro di Orson Welles e Tennessee Williams per i quali lui lavorò come compositore.
Compositore è anche Port Moresby, ma la modestia – o forse la stanchezza – gli impedisce di farne sfoggio, eppure gli occhi di John Malkovich, interprete del protagonista e vago alter ego dello scrittore Bowles, attraverso le inquadrature paesaggistiche di Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro, parlano di una fierezza che ha abbandonato la vita. Il senso dell’esistenza, del destino e della morte della religione islamica e della cultura tuareg sono protagonisti del viaggio letterario e poi cinematografico del regista parmense, dedicatosi con passione e dedizione al progetto de Il tè nel deserto.
Il tè è il simbolo di un cerimoniale, una bevanda fondamento non solo delle cinque del pomeriggio per gli inglesi, per gli indiani o per la storia tutta della Cina, ma anche della gente del Sahara, misteriosa, ricoperta di abiti blu, i Tuareg rappresentati a metà tra mito e realtà da un Bertolucci impegnato a curare più la scena che la storia. Del resto adattare le pagine di un romanzo descrittivo, d’immagini e sensazioni, è da sempre un problema del cinema, il quale diviene costretto ad affidarsi al potere del paesaggio, della luce e di un cielo così grande, così vicino, da sembrar solido.
Queste sono le parole di Port/Malkovich, protagonista insieme a Kit/Debra Winger di un viaggio a Tangeri dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1946, quando le donne in Italia poterono finalmente votare alle elezioni – il sottolineare una data importante che suona come un vezzo ed un dettaglio forse voluto dallo stesso Bertolucci. Insieme al loro amico George Tunner, esplorano con eccessiva sicurezza un’area pericolosa, che lentamente mostrerà la vicinanza tra la vita e la morte, sulle tristi note divenute famose di Ryuichi Sakamoto.
Preceduto dal successo internazionale de L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto segna il desiderio di viaggiare e rappresentare il mondo da parte di Bertolucci, regista la cui visione di grandezza fu confermata con il rinchiudersi in ambienti piccoli, ma vivaci, come in Ultimo tango a Parigi e successivamente con L’assedio e The Dreamers (senza contare il più recente Io e te). Un paio di occhi che hanno saputo guardare il mondo attraverso se stessi, secondo la propria personalità e le proprie intime leggende, dando le spalle alla realtà ed alle verità della cultura e del mondo. Un vantaggio infantile che allo stesso tempo è difetto, ma come tanti difetti possono essere, è affascinante.
Seconda delle tre sceneggiature di Mark Peploe, con prima L’ultimo imperatore e terza Piccolo Buddha, un insieme che potrebbe comporre una trilogia sulla vita, sul suo rapporto con cultura del vivere, non la filosofia, i cui spazi sono troppo grandi per essere compressi nei pur lunghi film di Bertolucci. Il tè nel deserto si apre e chiude così con le parole e la presenza dello stesso Bowles, morto poi nel 1999 a Tangeri, dove visse per ben 52 anni, i cui pensieri prima sembrano comunicare con i protagonisti, ignari della presenza di qualcuno, già a conoscenza dei loro destini, come un Dio assoluto le cui decisioni sono indiscutibili, una rappresentazione forse non vera leggendo tra le righe delle scritture (Bibbia e Corano), ma sincera se ci si siede al tavolino di un bar, in un territorio sconosciuto, a bere qualcosa con l’uomo che con la sua penna ha scelto quando e come morirai, cosa e perché penserai, in quell’ultimo istante di vita.