Scavando negli angoli più oscuri della nostra memoria troveremo un regista americano al suo esordio negli anni Novanta. Era un film dal titolo maestoso, George Washington, esempio eccellente di cinema indie, il suo regista David Gordon Green maneggiava con estrema cura temi delicatissimi. Dopo svariati altri film di più o meno interesse, iniziò una carriera folgorante nella commedia: Strafumati, Sua Maestà e Lo spaventapassere sono il genere di film per cui è famoso al giorno d’oggi. Encefalogramma piatto. Poi finisce in concorso alla Berlinale, nonostante il recente curriculum da incubo, con il remake dell’islandese Either Way, intitolato Prince Avalanche.

Le trame del film sono due, tutto dipende dal punto di vista che si sceglie. Secondo Green si tratta della storia di due operai della stradale persi nella loro solitudine in un luogo alienante come le foreste del Texas, piene delle cicatrici causate dagli incendi. Secondo chiunque altro è la storia di due tizi, un ragazzino sconsiderato ed un uomo di mezz’età depresso, che prima si odiano e poi si ubriacano allegramente insieme. Quel che avrebbe dovuto essere il racconto di una terra sofferente si è palesato come una commedia di seconda mano, con gag dozzinali, sequenze dalla regia “scolastica” e la recitazione da quattro soldi di Emile Hirsch, contrapposta alla salda e buona interpretazione di Paul Rudd.

Un filmetto su cui il discorso dovrebbe fermarsi qui, facendo sosta solo per un istante, il tempo necessario per stringere la mano al cinematographer Tim Orr, ed alle musiche degli Explosions in the Sky, soli motivi per cui la pellicola può valere la pena di esser guardata. Il lato piacevole si consuma in fretta come la dignità registica di Green ha fatto in questi ultimi anni, pur essendo stata in effetti premiata con l’Orso d’Argento dalla Giuria, un mistero inspiegabile che dovrebbe rispondere del crimine di non aver considerato concorrenti più meritevoli del riconoscimento.