Cinema Il cine-occhio

Benvenuti a Marwen

Stefano Valva

Robert Zemeckis, da grande autore americano quale è, principalmente collegabile al filone della New Hollywood dagli Anni ’70-’80, e come i suoi coetanei della stessa corrente cinematografica, si è sempre cimentato in tutti i generi della settima arte, nel corso della sua filmografia, siano essi noir o thriller, sci-fi o bellici, fino ad arrivare al film macchiato d’animazione, proponendosi come cineasta totalmente trasversale.

Benvenuti a Marwen è una storia vera, una storia americana, come lo fu per Flight con Denzel Washington e per The Walk con Joseph Gordon-Levitt, ma anche una storia sensibile e sfumata.

Mark Hogancamp, interpretato da Steve Carell, è un artista e fotografo, distrutto psicologicamente dopo che alcune persone fuori al bar dove lavora lo hanno ingiustamente pestato fino a ridurlo in coma. In quella sera Mark (abbastanza ubriaco) aveva rivelato di amare mettersi a collezionare scarpe con tacchi a spillo da donna. L’unica sua fuga da questo dramma cognitivo è Marwen, una cittadina fittizia del Belgio in miniatura, costruita da Mark stesso e abitata da bambole, che nella sua immaginazione prendono vita, nell’ambientazione della seconda guerra mondiale, in guerra (ovviamente) contro i nazisti.

Il suo alter-ego è un ufficiale americano di nome Hogie, che difende le cittadine di Marwen dai tedeschi; nessuna donna può avvicinarsi a lui o innamorarsi, altrimenti viene fatta sparire da una dea mitologica di nome Deja Thoris. Le scagnozze di Hogie prendono il nome da amici e amiche della sua vita reale.

Il concetto che potrebbe essere più utile per descrivere il film di Zemeckis è la diversità, in grado di creare odio, cattiveria e anche guerre. Come dice lo stesso Mark nel film alla sua nuova vicina Nicol, presentandole Marwen e rispondendo alla sua domanda del “Perché i nazisti torturano sempre Hogie? Perché è americano?”  “No, perché è diverso!”. La diversità è stata sempre un concetto difficile da accettare per l’uomo, e i nazisti spinti dall’odio verso chi ritenevano “diversi”, scatenerono una delle guerre più sanguinose della storia. Ma questo è un concetto difficile da accettare anche nella società moderna, ancora intrisa di razzismo, di omofobia, di sessismo, fino ad arrivare nella vita quotidiana, nel disprezzo e nella derisione di chi non si omologa semplicemente ai costumi e alle abitudini della massa e alle consuetudini sociali.

Marwen diventa per Mark un’oasi di salvezza, un videogame in cui gettarsi e fuggire dalla realtà, una terapia per il trauma psicologico. L’immaginazione avventurosa, amorosa, adrenalinica e compiacente vince su una realtà macabra, insicura e troppo complicata da accettare, come il processo per condannare ufficialmente coloro che gli hanno fatto del male, ovvero i neo-nazisti della società contemporanea.

L’immaginazione contro la realtà può essere un conflitto doloroso per Mark, un incubo che non finisce mai. I sogni e le immaginazioni sono la medicina più lieve, ma allo stesso tempo anche la più pericolosa. Mark vorrebbe vivere nell’immaginazione di Marwen, ma come tutti i sognatori si trova in un limbo fra reale e surreale, affascinato e felice come il personaggio di Gil Pender in Midnight in Paris di Woody Allen, quando attraversa la capitale francese in un delizioso mondo onirico, cosparso di arte e di creatività letteraria.

I sogni sono desideri ma (come si stava dicendo) anche paure, personificate dalla citata Deja Thoris, una strega primordiale che rappresenta anche l’inconscio più profondo di Mark, quello più oscuro, quello più pericoloso, quello che rende Marwen un’esperienza meno entusiasmante.

L’oggetto che fossilizza Mark in questo limbo fra Marwen e realtà e che lo riporta indietro come il totem nell’Inception di Christopher Nolan è la macchina fotografica, che serve a Zemeckis per rendere il suo film costantemente in soggettiva.

Si entra a Marwen con gli occhi e la mente di Mark, il suo occhio che entra nella camera fotografica per immortalare il mondo che improvvisamente prende vita, e il semplice rumore dello scatto fotografico successivamente smorza l’immaginazione e riporta Mark insieme allo spettatore nella realtà. Al contrario, la fotografia come istante fisso diventa poi animata quando ci si catapulta dentro; l’essenza dell’immaginazione, che è la stessa essenza magica del cinema.

Zemeckis con la sua regia non intende ostacolare la narrazione emotiva, coinvolgente e toccante che il film con la sua storia dà allo spettatore, la sua è una regia duttile e versatile, non tecnicamente significativa, tranne che per la citata soggettiva con la macchina fotografica, che è di assoluta maestria visiva, insieme alle potenti e rapide carrellate, che portano spiritualmente Mark a Marwen.

Oltretutto il regista americano conferma anche in questo film, così come vedemmo già nel precedente Allied, un uso sapiente e corposo del digitale, che al giorno d’oggi sembrerebbe scontato, ma che non lo è per un regista d’autore della New Hollywood, soprattutto nelle narrazioni basate su storie vere. Nella pellicola le bambole e l’ambiente che le circonda sono costruite con la CGI, una tecnologia che semplicemente le anima e rende gli attori del film simili a dei cartoon di legno. La scelta opposta sarebbe stata quella di utilizzare, come fatto poco tempo fa da Wes Anderson ne L’isola dei cani, la tecnica dello stop motion. Questo logicamente avrebbe reso la narrazione meno introspettiva e probabilmente avrebbe reso Mark anche come preminente figura di narratore esterno.

L’uso della tecnologia (senza voler entrare nelle reali intenzioni o pensieri di Zemeckis, che non sono ufficializzati) ha aiutato senza dubbio la narrazione delle scene di Marwen a essere più fluida e delicata, che con lo stop motion sarebbe stata sì più realistica, ma probabilmente anche più ridondante e meno di entertainment; e che contraddittoriamente, avrebbe condizionato un film, che invece vuole puntare sulla potenza e sulla creatività delle immagini mentali, che divengono fisiche come le immagini cinematografiche.

Benvenuti a Marwen è un prodotto con tanti spunti e con tante tematiche, con una scrittura così sfumata e affascinante come lo è il mondo immaginario di Mark, e anche sottilmente critica verso una società ancora non matura da imparare dalla storia. Una pellicola con tanta potenza visiva ed emotiva e con tanta compassione, che solo un attore come Steve Carell, perfetto nelle sue espressioni innocenti in questo tipo di personaggi introversi e sociopatici, riesce a dare.

Marwen è un mondo metafisico, è il gemello del cinema, un luogo dove potersi immergere e sentirsi realizzati, in cui abbattere le proprie paure e intraprendere le più affascinanti avventure, guerresche e amorose; dove non per forza si debba fuggire completamente dalla realtà, ma in cui si possa trovare la forza e il coraggio per affrontarla e apprezzare ancora di più la propria diversità.



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