“Bartleby, lo scrivano” o della disobbedienza gentile
Dalla pagina alla scena. Un racconto breve, Bartleby lo scrivano. Una storia di Wall Street, il più famoso di Herman Melville, trasformato in un atto unico dalla riscrittura drammaturgica di Francesco Niccolini e la regia di Emanuele Gamba. Protagonista Leo Gullotta, affiancato dal cast di Arca Azzurra Teatro: Giuliana Colzi, che firma anche i bellissimi costumi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti e Lucia Socci.
Bartleby, lo scrivano è andato in scena al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme nell’ambito della stagione teatrale organizzata da Ama Calabria con la direzione artistica di Francescantonio Pollice.
Melville scrisse il racconto nel 1853, esplorando i temi esistenziali già trattati nei suoi romanzi d’avventura, qui trasposti nel vissuto quotidiano di un semplice scrivano. La riscrittura, densa e asciutta, di Niccolini e la regia, sorvegliata e curatissima, di Emanuele Gamba restituiscono al racconto scenico la sua cornice farsesca e l’ironia sottile e sottesa nei confronti dell’universo produttivo ed economico che impregna il testo, pur lasciando inalterata la sua dimensione assurda, surreale, da favola tragica, in grado di restituire un’atmosfera compatta, carica di significato, profonda di pensiero.
L’allestimento di Sergio Mariotti ricrea l’interno di un ufficio, interrato, con pareti color cemento, spoglie, alte e levigate come una cisterna. In alto, due finestroni lasciano piovere una tiepida luce. Tre scrivanie, un attaccapanni e faldoni ammucchiati in un angolo occupano il perimetro scenico. Sulla quinta di destra si intravvede un bagno con un vecchio lavabo. Sulla quinta di sinistra, una porta si apre sull’universo del sociale, degli “altri”. Come recita il sottotitolo del testo, la storia si svolge tra le mura di Wall Street che rappresenta, per metonimia, il mondo degli affari e della burocrazia prima di terminare tra quelle del carcere, altro spazio chiuso che amplifica il senso di claustrofobia che innerva l’intero racconto. In questo luogo greve e sepolcrale, illuminato dalle luci verticali – con molte linee d’ombra – di Marco Messeri, lavorano, intanati, l’avvocato titolare dello studio legale e i suoi dipendenti. Scie sonore ossessive riproducono i rumori e il ritmo frenetico della routine lavorativa e accompagnano le entrate e le uscite dei personaggi che ripetono, in loop, i medesimi gesti quotidiani osservando una rigorosa geometria dell’insieme che si percepisce anche nella simmetrica disposizione degli oggetti scenici. Una coazione a ripetere che indica il rito del lavoro, sempre uguale a sé stesso. Cinque minuti di pura slapstick comedy dall’effetto ipnotico e alienante. Poi, sopravanza il silenzio che congela tutti in un fermo-immagine e l’Avvocato/voce narrante principia a raccontare la routine quotidiana del suo studio legale presentando i suoi compagni di lavoro identificati con i loro soprannomi: Turkey, Nippers e la signorina Ginger. L’unico personaggio ad avere un nome proprio è Rita, la donna delle pulizie, della quale Giuliana Colzi offre un ritratto di vecchia tata maniaca dell’ordine, protettiva e irascibile.
La sottrazione di identità, che investe l’Avvocato stesso, anticipa quel processo di glorificazione del lavoro proprio del sistema capitalistico e la graduale de-umanizzazione degli impiegati relegati a pura categoria sociale. Turkey e Nippers – ottimamente caratterizzati da Massimo Salvianti e Andrea Costagli – tra pulsioni profonde e humor rabbioso, sgradevolezze ed entertainment mettono in luce il carattere conformistico, retorico, ideologico della classe impiegatizia americana mentre la “cara” signorina Gingers, nella composta esuberanza di Lucia Socci, oscilla tra il senso del dovere e il desiderio di godersi la vita.
L’Avvocato, uomo onesto e senza ambizione (per sua stessa definizione), è mirabilmente tratteggiato da Dimitri Frosali. È fiero di sé stesso e, con fare falsamente modesto, dichiara di non ambire agli applausi altrui ma non perde occasione di ribadire le qualità che gli altri gli riconoscono, soprattutto John Jacob Astor. Un nome che ripete spesso mentre i suoi impiegati continuano a essere chiamati con i loro soprannomi, pregustando una malcelata voluttà nel rivelare i loro piccoli disturbi fisici: Turkey ha problemi di digestione, Nippers soffre di insonnia e mal di testa.
L’incontro con Bartleby, il nuovo scrivano, destabilizza questo microcosmo amministrativo efficiente ed equilibrato. La professione dello scrivano è, di per sé, intellettualmente atrofizzante. Lo scrivano non deve “pensare”, deve copiare quello che altri scrivono e obbedire alle richieste del padrone, docilmente. Eppure, docilmente, Bartleby si ribella, opponendo una resistenza passiva, calma, educata ma ferma a qualsiasi compito gli venga impartito, a parte copiare. Non un diniego frontale, diretto ma una perifrasi, una formula di cortesia che addolcisce il suo rifiuto, «Avrei preferenza di no».
Il loro è l’incontro di due solitudini. In Bartleby, c’è già tutta l’indifferenza e l’estraneità alla vita che si ritroverà poi nell’Etranger di Camus mentre l’avvocato non può vivere senza cercare di capire gli uomini e, soprattutto, le ragioni di questa compita disobbedienza da parte del suo scrivano. Durante le sue interazioni con Bartleby, l’Avvocato sperimenta tutte le reazioni possibili passando dalla sorpresa al tentativo di comprensione, dall’irritazione all’esasperazione fino alla paura che si trasforma, poi, in umana pietà. È il silenzio che si oppone al rumore delle parole, troppe, e che anticipa, in nuce, i dialoghi beckettiani.
Bartleby non ha casa, non ha storia, non ha una vita. Si nutre solo di biscotti allo zenzero. Leo Gullotta, in una interpretazione intensa e straniata insieme, disegna la figura di un anti-eroe dalla dimensione metafisica. Gullotta/Bartleby entra in scena in punta di piedi, con lo stupore contemplativo di un mimo, e questa discesa nelle profondità dell’Io, che scava nella propria memoria emotiva, lo porta a una percezione rarefatta della vita intesa come inazione. Spogliando ogni suo gesto delle componenti inutili, giunge ad una stilizzazione che trova nella assoluta semplicità l’elemento di potenziamento espressivo. I suoi movimenti si rivelano, a tratti, rigidi, marionettistici quasi. Non uno slancio, un moto sguaiato – nonostante la venatura caricaturale – o un abbandono. Con candore disarmante ripete, come un mantra, quell’unica battuta, «Avrei preferenza di no». Ma dietro quel sorriso innocente e infantile, stampato sulla faccia e che accompagna ogni suo cortese diniego, si cela un dolore compresso, intenso, decoroso che obbliga il pubblico al silenzio. Questa creatura, che sembra adombrare il surrealismo di Charlot, è capace – nel silenzio e nell’economia dei gesti – di far apparire il mondo denudato, spoglio di tutte le sue mistificazioni. Ma ad un certo punto, il mondo lo rigetta come un corpo estraneo e intollerato fino all’amaro finale. Bartleby, nella serena disperazione dell’imprigionamento e nella dignità di quell’ultima battuta rivolta all’Avvocato «Non ho nulla da dirvi», si lascia morire di inedia avvolto in un globo di luce che attende il chiudersi del sipario.
[Immagine di copertina: foto di Ama Calabria]