Back to 2069
Il linguaggio cross-mediale tra Cinema e Videogames è una nuova frontiera che sta andando speditamente in espansione. La riflessione porterebbe a dilungarsi fin troppo, basta soltanto sottolineare che il cinema di finzione in questi anni (attraverso adattamenti di celebri saghe videoludiche, che stanno diventando per la settima arte fonti preminenti, come lo è da sempre stata la letteratura per esempio, oppure attraverso opere che analizzano le affinità e le diversità tra mondo reale e mondo virtuale) insieme a stralci della post-serialità televisiva (vedi degli episodi in primis di Black Mirror) stanno inserendo al loro interno la struttura del mondo videoludico contemporaneo.
Parallelamente, anche i documentari stanno “sposando” tale ibridazione (ultimamente ci siamo soffermati su di un doc ove l’immagine videoludica rappresentasse la psiche turbata del protagonista filmico, ossia Le Eumenidi di Gipo Fasano, debuttante alla festa del cinema di Roma), e qui si arriva al tema principale dell’articolo.
Uno dei documentari in concorso al recentissimo Festival dei Popoli riguarda proprio una mitizzazione di una terra (la leggendaria isola greca di Lemnos, qui rinominata Altis) immaginando un contesto bellico nel 2069, attraverso la sovrapposizione di immagini digitali di un war-game in multiplayer.
Il titolo dell’opera è infatti Back to 2069 – seguendo lo stile da ossimoro del Back to the future di Robert Zemeckis – ed è scritta e diretta a quattro mani da Elise Florenty & Marcel Türkowsky.
Il primo aspetto da sottolineare è che il documentario è prettamente paesaggistico: gli unici personaggi sono gli avatar digitali dei giocatori, i quali si uccidono tra le lande desolate dell’isola, dialogando in chat sulle tattiche da attuare. Poi c’è un protagonista/narratore, che parallelamente – e sempre in fuoricampo – riecheggia le peculiarità storiche e mitologiche del luogo.
L’opera visivamente è suddivisa in due parti: tra long-takes continui sulla reale Lemnos e video-streaming come i tutorial degli youtuber sul gioco di guerra. Eppure, Back to 2069 è divisa idealmente in tre parti, che divengono passato, presente e futuro: il narratore introduce con frammenti la storia nefasta dell’Isola, anche attraverso il famoso mito di Filottete; ancora il narratore, mostra allo spettatore la desolazione odierna del territorio, ove faticano a nascere contesti sociali e culturali; infine, il videogioco, proiettato nel 2069, ove players di tutto il mondo si collegano online, per “nerdare” su tale mappa.
In riferimento all’estetica della rappresentazione trans-mediale, Back to 2069 sceglie un intermezzo, ossia spaccare la narrazione a metà tra l’immagine cinematografica e quella videoludica, mantenendo un decoupage che funge da mantra in entrambe le forme mediali, caratterizzato inoltre dalla scelta del piano sequenza e della soggettiva. Il documentario non predilige né che l’immagine videoludica si trasformi in cinematografica (come accade in Serenity di Steven Knight), né viceversa (come in Ready Player One di Steven Spielberg), bensì decide di intrecciarle e dividerle, enfatizzando la loro diversità, così come accade in alcuni episodi della citata Black Mirror. Anche se in quest’ultima, esiste un rapporto preminente anche tra il virtuale e la psiche dei personaggi – sempre visibili allo spettatore – che in Back to 2069 non traspare, perché sceglie una mise en scene che renda tale assunto più immaginabile, più sfumato, più implicito.
L’opera non diviene un caposaldo di un post-immaginario, basato su di una specifica forma e rappresentazione del cross-mediale contemporaneo tra due media, uno più moderno e tecnologico dell’altro. Back to 2069 invece è una pellicola sperimentale prettamente da festival, ed è un’originale materializzazione della storiografia, del mito e del futuro di uno specifico mondo, di un contesto destinato in ogni immagine – che sia essa realistica, idealistica o ludica – alla guerra, all’instabilità.
Il videogame non è che un’altra fattezza per dei Miti d’oggi (per dirla seguendo il titolo di un celebre saggio di Roland Barthes), in tal caso dei miti tragici e di una storia succube di un inconscio collettivo junghiano, che rende il territorio, o meglio, l’uomo che ci vive, un alter-ego di Filottete, ergo in status di alienazione. Infine, è insita una paranoia post-umana di un futuro possibile più che utopico – seppur esso sia lontano dalla realtà attuale per tempo e spazio – perché è perseguitato da una crisi geografica che sembra permanente.
- Diretto da: Elise Florenty, Marcel Türkowsky
- Prodotto da: Elise Florenty, Marcel Türkowsky
- Montato da: Elise Forenty, Marcel Türkowsky, Rudi Maerten
- Casa di Produzione: Michigan Films
- Durata: 50 minuti
- Paese: Belgio, Francia