Avventura dell’Uomo
Dopo la riscoperta di due firme della letteratura europea del primo Novecento (Massimo Bontempelli e Camilo José Cela), Utopia Editore si dedica alla saggistica, pubblicando Avventura dell’uomo di Piero Scanziani, giornalista di origini svizzere, insignito del Premio Shiller nel 1997. Oltre al giornalismo d’informazione, a Scanziani, morto nel 2003, sono attribuiti diversi interessi come la cinologia e la drammaturgia.
Avventura dell’uomo è un saggio di natura antropologica in cui l’autore ripercorre in 19 capitoli le tappe principali del percorso degli esseri umani dalla gestazione fino alla vecchiaia. Il “viaggio” si conclude con un elogio dell’uomo di sofoclea memoria (Antigone, vv. 332-375) nel quale il tempo acquisisce quasi un valore spirituale e pedagogico. Echi sofoclei sembrano permeare anche la prima parte del saggio in cui la nostra venuta al mondo viene descritta come il primo incontro con la sofferenza fisica, preparatoria, per certi versi, al dolore che inevitabilmente contrassegnerà le nostre esistenze. “Giunse la prima doglia. Fu come se due mani gigantesche ci avessero afferrato, rudi, l’una per la testa, l’altra per le gambe, piegandoci violentemente all’indietro. […] Era il primo dolore della nostra vita e ancora non eravamo nati”. Il passaggio da una fase all’altra viene tradotto in azioni attraverso la graduale acquisizione delle proprie consapevolezze (perspicacemente rese dai pronomi io, tu, noi): “Un giorno, sui tre anni, il bambino dice: <Io>, parola definitiva che gli chiarisce l’universo o forse glielo oscura, parola vincolatrice a cui rimarrà incatenato per tutta la vita. […] A nove anni per la prima volta diciamo <noi>. […]. Ormai siamo partecipi della società umana. […] Diciassettenni scoprimmo l’amicizia, scoprimmo in un altro l’addizione di noi stessi e gli dicemmo <tu>”.
All’alba dei trent’anni – prosegue Scanziani – l’avventura diventa collettiva: “gli altri non soltanto ci stanno intorno e ci foggiano: in verità ci sono indispensabili e senza di loro non sapremmo neanche chi siamo”. Tuttavia le riflessioni dell’autore non appaiono sempre pienamente declinabili al presente. Pur trattando la materia con approccio scientifico, Scanziani usa un linguaggio facilmente comprensibile, a tratti poetico, a tratti pragmatico, ma non sempre contemporaneo ed inclusivo; con un romanticismo d’altri tempi – il saggio è datato 1957 ed è stato revisionato dall’autore stesso negli anni ’80 – viene esclusa da tale avventura la diversità e si rovista in una umanità stereotipata, dove a dialogare sono l’uomo – virile, forte, protettivo – e la donna – tenera, sommessa, premurosa. Non fanno eccezione i capitoli dedicati alla adolescenza sia femminile che maschile o il capitolo inerente al rapporto di coppia, in cui emerge l’uso improprio della parola naturale applicato alla maternità – abbiamo superato da molto tempo, grazie alle lotte femministe, l’idea secondo la quale questa sarebbe ascrivibile ad un “istinto” – o agli atteggiamenti maschili descritti come naturalmente protesi al silenzio dei sentimenti e non come la risultante di un condizionamento della società. L’umanità rappresentata appare così anacronistica, figlia di un tempo lontano nel quale non si riconoscono tutti i lettori e tutte le lettrici.
Il riscatto (parziale) di Scanziani avviene nel riconoscimento delle eterne dicotomie imprescindibili per i singoli individui:“La vita non è soltanto una forza che separa e pone in guerra tutte le sue creature. È anche un’energia che unisce. L’altra faccia della guerra è la pace, l’altra faccia dell’odio è l’amore”.