‘Attraversamenti Multipli’ nel quartiere Quadraro di Roma: il corpo sacro del teatro
Abbiamo incontrato una piazza gremita e una coda ancora lunga di persone in fila per pagare il biglietto di “ingresso” alla Piazza Spartaco del quartiere Quadraro, sabato scorso 15 settembre. Una piazza che nonostante la presenza di un palco per lo spettacolo è rimasta aperta ad accogliere tutti, senza transenne. Un’immagine bellissima che rispecchia il desiderio reale e autentico del pubblico accorso di sostenere la cultura. Ed è stato giusto così. Deve essere giusto così.
Piazza Spartaco è quest’anno il cuore del festival Attraversamenti Multipli, ideato e organizzato dalla compagnia teatrale Margine Operativo con la direzione artistica di Alessandra Ferraro e Pako Graziani giunto alla sua diciottesima edizione.
Difficile quantificare le presenze di sabato scorso. Superavano di gran lunga il numero di posti a sedere, e questo di certo non perché l’organizzazione non avesse predisposto abbastanza posti. Semplicemente, tra le tante miserie in cui riversa, per una volta ha vinto lui, il Teatro.
Ascanio Celestini ha tenuto alta l’attenzione dell’uditorio con Il nostro domani, un repertorio di storie in bilico tra sfera pubblica e privata. Al centro della sua Weltanschauung, la sfiducia nel futuro come tempo del progresso: «Chi ci dice che il nostro domani sarà migliore dell’altroieri?» (Venedikt Erofeev). Perciò racconta un campione sociale di personaggi, stereotipati ma poi neanche tanto: cristalli di pura umanità – umani perché contraddittori – che riflettono la sua visione disincantata e scanzonata del reale. Si rivolge ai “compagni”, il pubblico, invitandoli a meditare su che cosa siano “destra” e “sinistra” politica, sulle volte in cui restiamo immobili, persino indifferenti, a guardare il mondo che scorre davanti ai nostri occhi anche quando alla vista ci fa pietà; e quasi, ad ascoltare il suo “sermone”, ce ne vergogniamo, vorremmo girare la faccia dall’altro lato.
Se ci voltiamo, poi, davvero, possiamo notare la piazza attenta e stracolma di spettatori davanti al palco vuoto, dove riverbera solo il corpo dell’attore e narratore accanto a Gianluca Casadei alla fisarmonica, tastiere e live electronics: è un’immagine che non si dimentica. Rassomiglia al luogo di ritrovo cittadino nei piccoli e affollati borghi devoti e religiosi nel periodo della festa patronale; che, detta a proposito di Ascanio Celestini, l’autore “laico”, di Laika e di Pueblo, è quasi un paradosso, un vero e proprio colmo. Ma tant’è. Gli spettatori erano seduti ovunque, al centro, ai bordi della piazza; in piedi, ai lati. Un “tutto esaurito” e oltre che fa riacquistare fiducia nel teatro, quello registrato sabato sera (e siamo certi che altri ne sono seguiti o seguiranno) al festival Attraversamenti Multipli. Quest’anno si è puntato forse un po’ meno sulla sua multidisciplinarietà evocata nel nome rispetto alle edizioni passate, in virtù di un altro tipo di approfondimento: sullo “sconfinamento” della performance nella vita e il suo rapporto con lo spazio, con i luoghi preesistenti e, quindi, con la collettività. Il giorno successivo è stata la volta di Roberto Latini e La delicatezza del poco e del niente. Lasciamo che siano, di seguito, le parole di Andrea Zangari a raccontarci com’è andata. (Renata Savo)
“La delicatezza del poco e del niente”
Forse fra qualche tempo, e sarà un po’ buffo, serate come questa avranno il riconoscimento sociale delle liturgie, un consenso apertamente religioso. Ad Attraversamenti Multipli, domenica 16 settembre, Roberto Latini ha portato i versi di Mariangela Gualtieri ne La delicatezza del poco e del niente, titolo di una delle più note poesie dell’autrice cesenate, tratta dalla raccolta Senza polvere senza peso (2006).
Siamo stati accolti in una cantina della periferia sud di Roma, raggiunta dopo una piccola processione da Largo Spartaco, fra candele allineate lungo una rampa d’asfalto: una catabasi alla fine della quale Roberto Latini aspettava il pubblico a fondo sala, rannicchiato contro un muro bianco, vestito di semplici indumenti chiari. Ci si rende conto poco a poco che si è parte di un rito, che per andare a teatro occorre sempre una preparazione a discendersi. I lavori di Fortebraccio Teatro sono da sempre tesi a rendere lo spettatore consapevole di una dimensione di partecipazione non meramente intrattenitiva, bensì persino liturgica, politica, poetica: qui il gioco è denunciato felicemente già dall’arrivo nel luogo, preparato in collaborazione col personale del festival che ha condotto il pubblico dal luogo di ritrovo a quello dello spettacolo.
L’operazione di Latini non si limita a dichiarare il testo, a tentare in maniera più o meno licenziosa, rispetto allo spunto originale dell’autrice, di dare voce all’interpretazione di un soggetto lirico. Chi conosce Latini non si stupirà: lo spettacolo in forma di concerto è la quintessenza di ciò che Pasolini sottendeva ove scrisse che «nel teatro la parola vive di una doppia gloria, mai essa è così glorificata. E perché? Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata» . La parola glorificata è una parola trascendente, che rende vivo il testo da cui proviene. Così le poesie di Mariangela Gualtieri suonano come reinventate nella voce di Latini, in un miracoloso rinascere alla vita dalla vita. I testi, una scelta personale dell’attore consacrata dalla poetessa che ha selezionato poi il titolo, vengono da svariate raccolte, come “Ossicine”, “Voci tempestate”, “Sermone ai cuccioli della mia specie”, “So dare ferite perfette”, “Fuoco centrale”, “Paesaggio con fratello rotto”.
Sottotraccia è fortemente impressa la ricerca che l’attore ha condotto per portare sulla scena il Cantico dei Cantici, quell’archetipo della poesia d’amore cui non a caso tanta produzione della stessa Gualtieri rimanda. Dallo stile del microfonaggio, ad una certa modulazione della voce, La delicatezza del poco e del niente è offerto in forma di rivolgimento ad una mancanza teologica di cui persino il Cantico biblico è struggente intonazione, con la sua struttura danzante dei due amanti che si sognano, si cercano, si danno appuntamento nel vuoto delle reciproche assenze. Questo è appunto il valore della poesia in sé secondo il primato, se non altro teorico, che la letteratura occidentale le riconosce: l’essere elevazione della parola ex nihilo, ovvero il riprodurre nel linguaggio il mitologema della creazione. Quel niente originante è appunto tutto ciò che c’è da salvare, in concelebrazione col “poco” che ne è la più concreta approssimazione esistenziale. «Io non so se questa mia vita sta spianata su un buco vuoto. \ Non so se il silenzio che indago \ è intrecciato alla mia sostanza molle. \ Io non so se quello che cerco e ho cercato e \ cercherò, non so se quello che cerco \ è un insulto a quel vuoto».
La voce dell’attore risuona spezzata dal doppio microfono, si biforca a tratti tematizzando il tema del dialogo. Non meri strumenti di scena, la coppia leggio-microfono diventa un corpo, dignificato dal moto di danza che quell’altro corpo sulla scena compie ipnoticamente. Nella distanza fra i due danzatori si misura «quella capacità che hanno i poeti di stare nei silenzi intorno alle parole»: a tratti Latini arretra, si stringe nelle braccia, lascia che il respiro preceda la Parola e che questa lo attraversi e lo rompa per poi essere amplificata. Il suono spesso si accompagna alle musiche, originali e non, di Gianluca Misiti. Le luci di Max Mugnai riescono a disegnare sul candore dell’intonaco comune di un garage l’arco luminoso e cangiante che separa un’alba dal tramonto, con particolare intensità sul finale di cui si fanno didascalia, un dolce ma deciso annottare si cui Latini si accascia, tornando nella posa in cui ci ha accolti, come sul fondo di una cella, come in attesa da sempre. Viene in mente l’immagine di uno sposo all’altare, che eccheggia nel dolcissimo testo di Sii dolce con me, scelto come finale. Uno sposo che non può far altro che aspettare, paralizzato sotto il peso necessario delle parole che lo dominano: «Se la parola amore è \ uno straccio lurido, \ se non ho altra lingua per dire cosa \ amo, se l’anima adesso è un ingombro». La delicatezza del poco e del niente è manifesto del sacro che è nel teatro come luogo del linguaggio rivelato. Forse fra qualche tempo, e sarà un po’ buffo, un teatro come questo sarà studiato da liturgisti e teologi. (Andrea Zangari)
Programma di domenica 23 settembre
Il resto della programmazione di “Attraversamenti Multipli” è consultabile qui.