“Aspide”: quando la Mafia serpeggia al Nord. Intervista alla compagnia Archipelagos Teatro
In scena ancora stasera, martedì 25 febbraio, al Teatro Porta Portese Aspide. Gomorra in Veneto, secondo lavoro della compagnia Archipelagos Teatro. La drammaturgia è stata scritta da Tommaso Fermariello, vincitore con il testo Fantasmi del premio Pier Vittorio Tondelli 2019, e sul palcoscenico le giovani attrici Gioia D’Angelo e Martina Testa vestono i panni di una giornalista e di una madre di famiglia per raccontare una storia vera: le attività illecite di stampo mafioso della società Aspide, che a cavallo fra il 2009 e il 2011 hanno danneggiato più di un centinaio di piccoli imprenditori fra Veneto e altre regioni del Nord. Sfruttando i buchi nel tessuto socio-economico del territorio, Aspide concedeva prestiti a tassi d’interesse insostenibili, ricattando ed esercitando violenza su oltre un centinaio di creditori insolventi che si vedevano gradualmente spossessare di tutti i beni. In un’atmosfera di paura e omertà, la collaborazione di Rocco Ruotolo, dapprima vittima, prestanome, poi fidato aiutante del boss, infine pentito, è stata la sola chiave per permettere alla polizia di scoprire l’esistenza dell’organizzazione e risalire ai suoi esponenti.
A sostenere lo spettacolo ci sono i documenti d’ufficio e gli atti del processo di quegli anni, in una drammaturgia che innesta le intercettazioni e le dichiarazioni del giudice e degli imputati sui racconti personali di due donne che solo all’apparenza sono osservatrici esterne dei fatti. Aspide. Gomorra in Veneto racconta dinamiche complesse con parole semplici, dando come risultato dell’incontro fra il punto di vista privato e le istanze di giustizia sociale il lato profondamente umano di una vicenda della nostra storia recente ancora poco conosciuta. Provando al contempo a sfatare l’intramontabile cliché su una Mafia «solo al Sud».
Lo spettacolo è patrocinato dall’associazione Libera contro le mafie ed è arrivato finalista al premio Intransito, la rassegna di teatro Under35 di Genova. A ridosso della tournée romana, abbiamo fatto qualche domanda a Gioia D’Angelo.
Aspide è uno spettacolo ispirato ai casi reali di infiltrazione mafiosa in Veneto. I responsabili, dichiarati colpevoli di usura, strozzinaggio e associazione a delinquere, sono stati riconosciuti come esponenti del clan dei Casalesi e l’intera vicenda della s.r.l. Aspide, che grazie a vari prestanome si assicurava la sopravvivenza legale e agiva non solo in nord Italia ma in varie regioni della penisola, si è conclusa dieci anni fa.
Come sono nate l’idea di lavorare sul tema della mafia e l’esigenza di guardare al Nord per affrontarlo?
L’idea è venuta all’Associazione Libera contro le mafie, e nella fattispecie al presidio di Padova dedicato a Silvia Ruotolo, che negli anni ho avuto modo di conoscere partecipando ad alcune manifestazioni e iniziando a collaborare con loro. Ho incontrato Marco Lombardo, che è il referente provinciale. Mi aveva vista come attrice in altri spettacoli e mi ha proposto il lavoro perché reputava indispensabile parlare di questo caso che è sconosciuto ai più, neppure i padovani lo conoscevano, me compresa.
La drammaturgia si basa sui veri atti giudiziari del processo: in che modo vi è stato possibile accedervi? Nel procedere del lavoro questi documenti hanno avuto un peso anche per ciò che oltrepassa il dato e riguarda invece il carattere e la temperatura emotiva dei personaggi?
È stato Marco Lombardo a parlarmi del caso, dei Casalesi insinuatisi nel territorio veneto che avevano minacciato oltre 130 imprenditori, e lui stesso mi ha affidato gli atti del processo, che sono poi stati studiati dal drammaturgo Tommaso Fermariello: li ha letti e trasformati in un testo per la scena attraverso un lavoro molto complesso. Sicuramente c’era bisogno di oltrepassare il “dato” per arrivare al pubblico, è un’esigenza che si riflette nella scelta di consegnare il racconto a due donne. Il motivo è che spesso sono le donne ad essere le depositarie di questa memoria e ad assumersi il compito di tramandare storie. Si tratta di due personaggi diversi nel carattere, perché diversa è la propria posizione rispetto alla storia, anche se entrambi rappresentano la parte emotiva della drammaturgia: c’è la giornalista, che interpreto io, che ha il compito di narrare l’evolversi dei fatti e come questi Casalesi hanno agito, e c’è Rosalina, la moglie di Rocco Ruotolo, l’imprenditore coinvolto dal clan ma che trova il coraggio di rinunciarvi. Sono due linee parallele toccate entrambe da questa storia; la paura e il dubbio, chiedersi se ne vale la pena e fino a che punto mettersi in gioco e rischiare sono elementi che le accomunano.
Le due donne in scena hanno infatti delle differenze molto marcate: fra la brillante giornalista che segue il caso per ambizione professionale e non per senso civile e la catechista moglie del testimone di giustizia che racconta con tono accorato la vicenda familiare privata la relazione esiste, ma non è esplicita; i loro sono monologhi affiancati. Sono speculari sia nell’occupare lo spazio scenico sia nella loro funzione: in movimento la prima, statica la seconda, i resoconti puntuali affidati all’una quanto le emozioni sono di pertinenza dell’altra. Ma la bipartizione si ferma sul proscenio, dove c’è il microfono: in quella postazione si svolgono le scene oniriche e la scena del processo, che sono momenti di cesura rispetto al resto. Nella costruzione dello spettacolo che significato ha avuto per voi questo modo schematico di proporre la storia?
Apparentemente loro non sono le protagoniste, sono estranee a scelte e accadimenti. Lo spettacolo nasce dall’idea di un’intervista, ma quello che più ci interessava era ripercorrere il possibile iter di queste donne nella vicenda.
Ecco perché due spazi. Uno studio con un tavolo e un cavalletto. Un salotto con una sedia. La giornalista non ha scelto l’argomento, inizia a scrivere l’articolo perché le è stato affidato e inizia a leggere, a informarsi, a ricostruire i fatti e il modus operandi di Aspide. Rosalina all’inizio sembra subire le scelte del marito, ma in realtà acquista sempre maggior consapevolezza, e diventa determinante nelle decisioni. A un certo punto entrambe si trovano ad esporsi, a dover prendere posizione, a chiedersi quale sia il punto di non ritorno, cosa e quanto abbiano da perdere. E per questi momenti abbiamo riservato un terzo spazio, “altro”, estraneo e comune ad entrambe, una bolla di sogno, emotiva, che le unisce e in cui non hanno più ruolo: sono donne con le proprie paure e le proprie domande.
Calate nel testo, ci sono alcune espressioni che veicolano idee forti. Sono costruite su tre parole esemplari: la prima è «paura», il termine «che il codice penale non comprende»; la seconda è «onestà»: l’onestà di Rocco Ruotolo, il connivente e poi pentito, l’onestà che manca, assieme al candore, «al tessuto economico del nord-est» italiano, ma che sembra venir meno anche alla giornalista nel momento di scegliere, in un primo momento, di non coinvolgersi fino in fondo e lasciare anonimo il suo articolo; la terza parola – forse meno evidente delle altre, ma pronunciata in un momento emblematico – è «avanguardia»: è degno di attenzione che il termine venga riferito al Nord in quanto territorio «avulso dalle mafie», territorio che in virtù di questa autonomia «rappresenta l’avanguardia economica del Paese». A fronte del lavoro affrontato, che tipo di riflessione proponete al pubblico con Aspide? Attraverso la rappresentazione è possibile fare teatro civile?
Questo lavoro, grazie alla collaborazione con Libera, nasce dall’esigenza di raccontare una storia e informare che la mafia non è isolata, non è circoscritta a un luogo o una regione. In un momento di “isolamento” come questo, in cui sembra che si dividano gli avvenimenti nelle categorie “mi riguarda” e “non mi riguarda”, ecco che la Mafia ci riguarda, tutti, non è più defilata o pertinente solo ad alcune categorie di persone. Il teatro ha anche un altro compito, permettere al pubblico di vestire i panni di queste donne e attraversare la loro esperienza in un rito collettivo. Non ci importa determinare chi siano i buoni e i cattivi ma esplorare la situazione contingente, il bisogno e la paura che determinano le nostre scelte. Ciascuno di noi si è trovato davanti al desiderio di farcela, alla seduzione del compromesso, al bisogno di mantenere il proprio lavoro, il proprio impegno, e ci siamo chiesti quale fosse il prezzo, quale la scelta giusta, quale il limite. È questo il momento che ci accomuna e appartiene a tutti noi, pur avendo storie diverse gli uni dagli altri.