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“Anna Cappelli”: monologo per sola donna, l’ultimo di Annibale Ruccello

Giovanna Villella

Anna Cappelli, scritto nel 1986, è l’ultimo lavoro drammaturgico di Annibale Ruccello. Il monologo, interpretato da Silvana Luppino per la regia di Christian Maria Parisi, è andato in scena al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme nell’ambito della stagione teatrale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli. Lo ha prodotto l’Associazione culturale Teatro Primo di Villa S. Giovanni (Reggio Calabria), che è un piccolo teatro di frontiera, incastonato nello Stretto di Messina, con 70 posti a sedere e un foyer con annesso angolo wine bar, uno spazio autogestito che propone laboratori, saggi e stage di danza, concerti, proiezioni di film, presentazione di libri, produzioni teatrali proprie ma anche spettacoli regionali e nazionali, con uno sguardo privilegiato sulla drammaturgia contemporanea.

In scena un décor minimale con un cubo bianco calce, riverberante nella massa di buio e la silhouette di un televisore che vomita le pubblicità del vecchio Carosello. Una felice sintesi realizzata da Aldo Zucco e rielaborata dallo scenografo Osvaldo La Motta che, con realismo intelligente ed essenziale evoca, in sineddoche, ognuno degli ambienti in cui si svolgono i sette quadri del monologo: una cucina, un ufficio, un telefono pubblico, un cassettone, la toeletta di una camera da letto, una ghiacciaia…

La regia attenta e rigorosa di Christian Maria Parisi immerge la pièce in una atmosfera onirica, fondendo i corpi fisici – dell’attrice e degli oggetti – in una tenebra squarciata dai fasci di luce di Guillermo Laurin.

La playlist sonora propone Tremarella di Persiana Jones, Tous les garçons et les filles di Françoise Hardy, Come te non c’è nessuno di Rita Pavone, il celebre jingle Bidibodibu cantato da Claudio Celli, Canta ragazzina nella versione di Mina, La lontananza di Domenico Modugno, Ti ruberò di Bruno Lauzi. Liriche musicali che non solo scandiscono il passaggio da un quadro all’altro ma acquistano la funzione del coro greco, anticipando e commentando, con i loro testi, l’azione drammatica.

Anna Cappelli, nella superba interpretazione di Silvana Luppino, è – come tutte le donne di Annibale Ruccello – una “deportata” della vita. Un’altra voce muliebre nata dalla felice e feconda penna del drammaturgo partenopeo, scomparso troppo presto. Ruccello ha saputo indagare l’animo femminile, esplorarne la psiche fino ai più intimi recessi tratteggiando magnifiche figure di donne moderne. Tragiche eroine della quotidianità che, sotto l’apparente normalità, celano un ribollire di passioni represse e di sentimenti irrazionali pronti a esplodere di soppiatto, travolgendo e scardinando l’ordine costituito.

La storia è ambientata negli anni ’60, Anna è un’impiegata che vive in una camera in affitto e, come ogni donna, è alla ricerca di un progetto di felicità legato all’amore. Vuole un uomo e, soprattutto, una casa tutta sua ma, dopo l’abbandono da parte del compagno, la sua reazione sarà violenta e teneramente straziante.

Anna combatte la sua battaglia quotidiana nella sua trincea individuale tra il puzzo del pesce bollito e la polvere del suo ufficio. Ogni tanto va al cinema. Vive lontano dalla sua famiglia, è indipendente economicamente ma è un’anima inquieta che reclama il suo posto nel mondo. Plausibilmente, il distacco dalla sua famiglia ha rappresentato una lacerazione degli affetti mentre la sua camera, ceduta alla sorella Giuliana che si è fidanzata (“La mia camera è mia e non si tocca!”), adombra la disgregazione del suo spazio domestico personale, percepito dalla sua psiche come un ulteriore allontanamento, un rifiuto quasi, da parte del suo nucleo d’origine che la fa sentire una estranea. Così, l’uso reiterato dell’aggettivo “mio” non è solo avidità di possesso quanto l’infantile attaccamento al giocattolo che infonde sicurezza e le permette di riempire quel grande buco nero che la abita. Le cose sono sue, le persone sono sue ma, anche queste, sono sottoposte a un processo di reificazione.

In foto, Silvana Luppino

Con minuzioso rispetto per l’epoca nella scelta dei costumi, la Luppino si presenta in miniabito nero, grandi occhiali da vista e capelli raccolti in uno chignon alto. Domina la scena con sicurezza e disinvoltura. Si sdoppia, orienta le battute verso zone oscure di sé, dialoga con interlocutori invisibili che danno l’impressione di un ‘io’ diviso e sposta il cubo “mutante” trasformandolo, di volta in volta, nei vari ambienti che identificano i quadri scenici.

I suoi intimi comizi femminili, varianti in tono e ritmo, rimandano – di riflesso – alla psicologia degli altri personaggi, incorporei eppure presenti attraverso la percezione delle sue espressioni facciali. Una sorta di effetto Kulešov in modalità teatrale che abbozza, a matita, il ritratto di una padrona di casa pettegola che vive segregata in compagnia di gatti puzzolenti, di genitori lontani che devono pensare al futuro di altre due figlie, di un amante dall’unghia del mignolo troppo lunga che dopo due anni di convivenza non esita a lasciarla, di una vecchia cameriera troppo presente.

Silvana/Anna, in una sorvegliatissima interpretazione che oscilla tra l’ironia e il dramma, rivendica la propria indipendenza con uno sguardo di nostalgia rivolto a un passato recente, vuole mostrarsi convintamente emancipata ma la sua la sua seduzione nei confronti del ragioniere Tonino Scarpa acquista i toni di una civetteria ingenua e démodé: si schermisce, balbetta, abbassa lo sguardo, gesticola, ride con femminea nevrastenia, scosta “distrattamente” la spallina del bolero lasciando intravvedere un triangolo di pelle fino a riprendere il controllo di sé con lampi di malizia straniante.

Eppure, in questa donna braccata dalla sua ansia di vita, combattuta tra istanze individuali e utopia sociale, c’è un metodo che mira a infrangere, alienare, ribaltare le semplici leggi della Natura. In forza della sua ragione discorsiva, vigile su quella deformante, ogni suo gesto scenico si compone di impercettibili segni che porteranno a conseguenze estreme. E Silvana/Anna sa ben dosare e distribuire questo umor nero che si percepisce nelle pieghe delle parole, nella mimica facciale, nel movimento delle mani che accarezzano le cose o artigliano gli oggetti quasi a volerli assorbire, introiettare, fagocitare, e farli diventare parti, cellule, del suo corpo.

Il suo interesse nei confronti del ragioniere Tonino Scarpa è direttamente proporzionale al patrimonio e, soprattutto, alla casa che questi possiede. Anna accetta la convivenza contravvenendo alle convenzioni borghesi, i due diventano una coppia irregolare attuando, nel loro piccolo, una sorta di rivoluzione sociale in un momento storico che vede i prodromi della nascita del movimento femminista in Italia.

Tuttavia, la sua trasgressione acquista i contorni di una scelta consapevole. Anna è capace di sacrificare “rispettabilità, decoro, matrimonio, giovinezza” a un uomo che ritiene l’unica “cosa” veramente sua, ma la disperazione dell’abbandono, il suo dolore, il dispetto, la sorpresa fanno pensare allo smarrimento del bambino quando si vede negare qualcosa che ritiene gli sia dovuta: “Io le amo queste mura, Tonino, sì… sì… come amo te. Come se foste una cosa sola per me, che è mia…”.

L’orrore del gesto finale matura in un corto circuito psichico che la trasforma in una lady killer candida e lucidamente delirante. Così, in un macabro cerimoniale che la vede in abito da sposa, Anna è pronta a consumare il “caro pasto” opportunamente odoroso di spezie prima della sua doppia uscita: dalla scena e dalla vita. È il suo risarcimento affettivo.



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