Amour
Il film acclamato dalla critica e vincitore della Palma d’Oro a Cannes finalmente arriva nelle sale!
Michael Haneke è uno dei pochi veri autori contemporanei. Se per autore ancora vogliamo condividere la definizione classica del regista come mente creativa, la cui filmografia è un corpus compatto, attraversato da tematiche ricorrenti, consonanze estetiche e stilistiche, interrogativi e ossessioni costanti a cui dare forma filmica.
In Amour ritorna l’attenzione per il nucleo familiare borghese, protagonista di tutte le pellicole del regista sin dal suo lungometraggio d’esordio Benny’s video. Georges e Anne (Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, entrambi perfetti) sono una coppia di anziani ex insegnanti di musica, appagati e innamorati.
La malattia irrompe nella vicenda, ma non all’improvviso, perché il prologo mostra il cadavere di Anne cosparso di fiori, dentro una stanza sigillata nella casa vuota. È un piccolo vantaggio che Haneke concede a chi guarda, l’unico espediente narrativo in un film improntato al realismo quasi documentario e che non concede tregua allo spettatore.
Anteporre il finale genera una speciale suspense, un senso strisciante di inquietudine e di attesa analogo al disagio profondo provocato dai film precedenti, in cui la violenza era una presenza sempre in agguato.
C’è, anche qui, l’omicidio. Diverso da quelli – apparentemente – insensati e sadici del passato: Benny che ammazza la compagna di classe con una pistola ad aria compressa; gli adolescenti infernali di Funny games; i ragazzini protonazisti del Nastro bianco e così via. Banalmente potremmo definire questi delitti come manifestazione simbolica della follia della società. In Amour la radice del gesto va ricercata, come il titolo suggerisce, nell’amore: Georges uccide Anne perché non vuole più vederla soffrire. Sembra quindi che per il regista non si possa prescindere dalla violenza nei rapporti fra gli esseri umani. L’atto viene mostrato nella sua interezza, senza stacchi, lasciando allo spettatore un punto di vista privilegiato sulla scena e obbligandolo a vedere.
Haneke predilige i piani lunghi, statici e un montaggio minimale, ottenendo un film quasi totalmente privo di campi e controcampi. Indugia sull’inquadratura anche quando il personaggio è uscito dal quadro e lo spazio rimane vuoto. Come faceva Robert Bresson, di cui Haneke è degno erede.
Li accomuna la tendenza alla sottrazione anche nel rappresentare sentimenti che non esplodono mai, contenuti e raffreddati, come la fotografia dai toni grigi e azzurri.
Al pari del maestro francese, Haneke è un regista morale – privo però della religiosità di Bresson – ma mai moralistico, perché, come ha dichiarato in un’intervista per La Stampa ad opera di Fulvio Caprara, «La realtà è spesso ambigua e contraddittoria e l’arte deve cercare di rifletterla, solo così può nascere il confronto». Senza il giudizio, possiamo aggiungere.
Dettagli
- Titolo originale: Amour
- Regia: Michael Haneke
- Fotografia: Darius Khondi Ji
- Musiche: Alexandre Tharaud
- Sceneggiatura: Michael Haneke
- Altro: Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert