Cinema Il cine-occhio

Amiche in Affari

Stefano Valva

A gennaio –  nel periodo antecedente alla chiusura delle sale per la pandemia – il mercato americano delle commedie ha esordito con Amiche in Affari (Like a Boss il titolo originale), l’ultima pellicola del regista portoricano Miguel Arteta, il quale, da tempo, è ritenuto uno dei profili più interessanti – soprattutto ad inizio carriera – nel cinema indipendente (egli vanta una vittoria nel 2000 per Chuck & Buck agli Indipendent Spirit John Cassavetes Award).

Arteta stavolta si cimenta in un plot routine per la comedy statunitense moderna, evoluta in salsa contemporanea perché le protagoniste sono (solo) le donne. Il regista entra così in un ramo cinematografico caratterizzato oggi da un forte spirito femminista. Mia e Mel sono amiche dall’infanzia, gestiscono un negozio di produzione e vendita di cosmetici (una passione che da sempre condividono). Le dinamiche che smuovono la trama, sorgono nel momento in cui – a causa di un deficit economico gestito superficialmente – le due decidono di avviare una partnership con una multinazionale del trucco, gestita da colei che sarà una fattispecie di villain, ossia Claire Luna, interpretata da una Salma Hayek irriverente e meschina.

Le protagoniste dovranno vedersela con lo scontro fisiologico che si instaura – come conseguenza di tali scelte – tra il profitto e l’amicizia, l’etica del lavoro e la logica del guadagno, i principi morali e gli scopi finanziari, altruismo ed egocentrismo. Per introdurre l’analisi del film, va presentato un excursus: se Bèla Balàzs scrisse anni or sono su di una crisi della commedia nel cinema sonoro, allora oggi tale riflessione va (forse) evoluta, perché la decadenza della sceneggiatura odierna è tra le cause di un’ulteriore degradazione della commedia, in primis americana. Perché se il dramma può ricercare all’interno dell’immagine-mente – per citare Deleuze – un’ancora di salvataggio da una scrittura più o meno brillante, la commedia moderna senza quella può perdersi completamente, e inoltre è costretta a fossilizzarsi in cliché e stereotipi che non possono salvarla, almeno non nel medio-lungo termine.

La digressione filmologica anticipa la critica, perché Amiche in Affari avrebbe potuto sradicarsi di una mediocrità estetica e contenutistica – che non evita – attraverso due temi: Quello delle donne indipendenti e dell’etica del lavoro nel mondo del Make up, che potevano essere delle idee interessanti, se sviluppate nella maniera dovuta, così da rendere il plot eterogeneo ed ampliato, sia su una caratterizzazione dei personaggi, sia su un evoluzione di vari filoni narrativi, che potevano essere sfruttati, e che la macchina da presa decide volutamente di evitare, facendoli solo intravedere (a fatica) al pubblico, attraverso esasperanti campi medi.

Quindi i temi citati non frenano la perenne degradazione della commedia americana, alla quale il film si inscrive. Se il sonoro non garantì più lo stile sorprendente dell’epoca del muto (Chaplin e Keaton), ossia quel movimento che enfatizzava le gag e il gioco di equivoci, i quali erano i capisaldi della slapstick comedy; oggi la commedia è ancora più in crisi, dopo un altro evento epocale, ossia l’arrivo nella settima arte – già da tempo – del digitale (seppur quest’ultimo dia l’illusione su di un perfetto virtuosismo estetico) e della definitiva caduta dei generi. Se il cinema – e nello specifico la commedia – non predilige né l’immagine, né la realtà, allora cosa resta?

Non è abbastanza la rappresentazione di due donne (rigorosamente una bianca e una afroamericana), dedite alla carriera professionale, senza il bisogno di una famiglia, che usano gli uomini solo per placare pulsioni momentanee (torna alla mente il pensiero profetico e datato di Rilke sulla crisi del rapporto uomo – donna, che sarebbe avvenuto nella società moderna). Tutta la loro vita è per il trucco e per l’amicizia tra esse, che la logica del lavoro, inoltre, prova addirittura a mettere a repentaglio.

Eppure, diviene stimolante l’accennato scontro ideologico tra le differenti visioni della bellezza, quindi di metodologie, per un make up sulla donna e per la donna. Mia e Mel sono le paladine del make up artist che non deve inficiare sull’estetica femminile, deve migliorarla ma non trasformarla, far uscire il meglio possibile, non creare una maschera; in sintesi, quel lavoro non deve essere basato su di un esibizionismo narcisistico della truccatrice, in stile pittore o autore, bensì deve essere al totale servizio del cliente, una sorta di lavoro “sporco” determinante, ma che resti lontano dai riflettori.

Questo forse è il tema che viene più analizzato, negli appena 90 minuti (inevitabili, dato che la pellicola si sofferma solamente su di un aspetto della narrazione, senza approfondire o esplorare altro), e che più intriga lo spettatore. Il resto viene condito con scene scritte e dirette in maniera scolastica e poco sfumata, non riuscendo a strappare delle risate al pubblico e a sviluppare – a differenza dei consueti slogan tematico-pubblicitari – una verve ironica e satirica, che tanto servirebbero a prodotti come Amiche in Affari.

Allontanandoci dai temi, Arteta tout court non osa, nemmeno in termini tecnici (non dimentichiamoci, che la commedia a volte ingiustamente è stata considerata un genere minore – in realtà ha sperimentato e innovato tecnicismi e aspetti filosofici per una storia del cinema che sono di rilievo ancora oggi): il film è riempito di campi medi, campo contro campo continui tra le due protagoniste, e tra loro due e gli altri personaggi, carrellate in alcune sequenze in esterni, così da ottenere una direzione modernistica standardizzata, attraverso piani e découpage, che se costruiti diversamente, avrebbero non annullato, ma almeno oscurato le difficoltà creative della scrittura. D’altronde, va aggiunto che tale procedimento oggi riesce ad una manciata di cineasti.

Mia e Mel dunque sono due donne che lottano disperatamente per gli ideali e per l’amicizia: le sole cose che hanno. L’ideale è personale, ed è tanto riservato quanto esposto alla massa, se esso può migliorare (in questo caso) il settore di appartenenza. Make up artist per due come loro non vuol dire – almeno non solamente – artisticità o produzione individuale, ma è soprattutto creare per gli altri, per una collettività, ossia donare un equilibrio costante alle donne in rapporto al come esse si vedono, quindi al come si giudicano perennemente davanti allo specchio ogni giorno della vita, così da infonderle un’autostima quotidiana. Invece l’amicizia, non completa ma “positivizza” l’essere, nel film è il valore unico da preservare, perché rispetto agli altri diviene una condizione sia sufficiente, sia necessaria per vivere, in armonia e in empatia con sé stessi e l’altro. Un valore che dà il meglio di sé quando è messo alla prova, perché proprio lì può sfoderare un sentimentalismo invincibile.


  • Diretto da: Miguel Arteta
  • Prodotto da: Marc Evans, Peter Principato, Itay Reiss, Joel Zadak
  • Scritto da: Sam Pitman, Adam Cole-Kelly, Danielle Sanchez-Witzel
  • Protagonisti: Tiffany Haddish, Rose Byrne, Jennifer Coolidge, Billy Porter, Salma Hayek
  • Musiche di: Christophe Beck, Jake Monaco
  • Fotografia di: Jas Shelton
  • Montato da: Jay Deuby
  • Distribuito da: Paramount Pictures (USA), 20th Century Fox (Italia)
  • Casa di Produzione: Artists First
  • Data di uscita: 10/01/2020 (USA)
  • Durata: 83 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese
  • Budget: 29 milioni di dollari

Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti