#CastellinAria 2019. S-Cene con gli artisti al Vicolo #3 – LideLab
a cura di Maria D’Ugo e Andrea Zangari
Abbiamo deciso di incontrare le giovani compagnie della seconda edizione di CastellinAria – Festival di Teatro Pop, di cui “Scene Contemporanee” è mediapartner, intorno a un tavolo, a tu per tu, prima che vadano in scena la sera successiva nell’arena di Castello Cantelmo ad Alvito (Fr). Spesso infatti i festival offrono eccezionali vetrine, avviando processi di maturazione dei rapporti fra critici, direzioni artistiche, attori, registi, etc… Ma altrettanto spesso bruciano repentinamente il tempo della condivisione, nel respiro che si affanna fra i molti saluti, le esigenze logistiche, gli eventi in programma. La singola messa in scena rischia così di diventare un momento sovraccarico di aspettative, dissipate poi, una volta giù dal palco, dall’eco di una festa che si è già spostata poco oltre.
Abbiamo cercato di capire a che punto del loro cammino artistico questi giovani professionisti si sentano, e lo abbiamo fatto attraverso “Il Vicolo del critico“, format a cura di Scene Contemporanee condotto da Andrea Zangari e Maria D’Ugo, presso il ristorante “Il Vicolo” di Atina (Fr), che consiste nella somministrazione di una rosa di domande identiche per tutte le compagnie.
Ci è parso utile riappropriarci di questo momento altro, disteso, per parlare dei processi che avvengono prima dello spettacolo o della performance, senza però limitarci a ciò che specificamente riguarda il lavoro presentato al festival, ma volgendo lo sguardo al prima, e al dopo.
Il terzo incontro è con LideLab, formazione tutta al femminile nata in seno alla volontà di portare avanti un progetto preciso, riguardante una delle opere più difficilmente riducibili a sintesi dell’intera storia letteraria: il testo-mondo de Le mille e una notte. Chiacchierando con la compagnia, composta da Silvia Rigon, Barbara Mattavelli, Federica Furlani e Lucia Menegazzo, abbiamo potuto dare un’occhiata alle idee, alle motivazioni e alle passioni che, a partire da un’investigazione quasi filologica di un testo, possono poi muovere sul piano della messa in scena. Le mille e una notte – IV ora è una solenne coreografia che mescola linguaggi, strumenti e repertori scenici: i suoni lugubri campionati in diretta di una viola, una funerea scenografia di scheletri, le ombre proiettate di mostri cartacei e di una marionetta a scala umana, pongono lo spettatore di fronte a una complessità segnica inestricabile, un flusso cui abbandonarsi anziché affaticarsi a decifrare.
Cosa vi ha portato ad Alvito e a CastellinAria, festival che parte dalla ricerca di un teatro Pop? Più nello specifico, cos’è per voi il “pop” e in che modo è presente nei vostri obiettivi e nel vostro approccio al teatro?
A proposito di questo, potremmo iniziare dicendo qual è il sottotitolo del lavoro che portiamo a CastellinAria, che è “Wunderkammer”. Si tratta della collezione di meraviglie, dell’idea del mondo rappresentato in tutta la sua varietà dentro una sola stanza. Questo rimanda già al pop, nel senso più ampio di un procedimento di accumulo che consente di lavorare su vari livelli di comunicazione, mettendo l’individuo, e in particolare lo spettatore, di fronte al paradosso dell’esistenza come co-esistenza di un’infinita varietà di elementi. Proprio in virtù di questo, nel nostro lavoro la narrazione non può essere lineare, e procede invece per sovrapposizione di immagini e di linguaggi. Lo spettatore può decidere autonomamente come mescolarli e quale strato della storia seguire. Nel caso specifico del nostro spettacolo, sicuramente chi conosce già Le mille e una notte può cogliere i riferimenti al testo: ma quel tipo di conoscenza non è essenziale, né l’unico, in quanto ci sono altri livelli universali di comprensione possibile che sono offerti dalle immagini, dalle ombre e dalla marionetta.
Anche rispetto a questa esigenza connaturata al genere, di arrivare e comunicare qualcosa, cos’è il vostro, di teatro?
Il nostro teatro è un modo di conoscere, di esplorare alcuni aspetti dell’umano che ci riguardano. La formalizzazione del processo creativo è un tentativo di condivisione e di sintesi, ma il modo in cui la comunichiamo non verte obbligatoriamente sul piano della comprensione razionale. Lo spettacolo è un riflesso del processo creativo che comprende anche le debolezze, le difficoltà e tutti i momenti di apertura e scoperta. Abbiamo scoperto, del resto, che l’imperfezione è inevitabile, ed è legata alla costruzione dello spettacolo. Nel caso di Le mille e una notte – IV ora il processo di creazione si è riversato interamente sull’intuizione e sull’esplorazione del tema centrale, la morte, che in assenza di una struttura predeterminata si compone pian piano sulla scena attraverso la giustapposizione delle immagini create.
Quale metodo di lavoro avete trovato nella vostra esperienza fino ad oggi?
In generale, ogni metodo di lavoro cambia di volta in volta. Possiamo, però, parlare del metodo, o meglio del processo, che abbiamo seguito per IV ora in quanto parte iniziale di un progetto più grande. Partendo dall’incrocio fra le tante traduzioni de Le mille e una notte abbiamo individuato cinque temi portanti nel testo, e da questo è nato il progetto che si compone di cinque capitoli in cui usare linguaggi, e quindi metodi, diversi. Le mille e una notte è infatti come un’enciclopedia di riferimenti alla cultura araba classica del XIV secolo: dall’anatomia alla teologia, dalla poesia alla musica, dall’erotismo alla scienza. Sono tutti livelli che entrano nella narrazione e che si stratificano sopra all’essenzialità del racconto, e che abbiamo attraversato prima con lo studio per poi arrivare a quel preciso nucleo narrativo. Quando siamo state in residenza con ERT presso il Teatro delle Moline di Bologna nell’agosto 2018, il lavoro si articolava così: Silvia studiava, Lucia disegnava e Barbara aveva uno scatolone con oggetti vari con cui giocare. Nelle pause Silvia condensava per noi le nozioni utili di storia e cultura araba, perché i materiali vanno studiati per sedimentarsi, e devono sedimentarsi per essere poi dimenticati. Solo così può subentrare l’intuizione come dinamica creativa, unica possibilità per approcciare una materia inconoscibile come la morte, che poi è il nucleo tematico de la IV ora. Per indagare il tema a scala universale, abbiamo successivamente intervistato amiche e colleghe da tutto il mondo, chiedendo loro di raccontare nella propria lingua madre l’esperienza di alcune pulsioni violente nelle rispettive culture. In generale, ci piace l’idea di lavorare con una comunità di riferimento: per l’erotismo, nucleo tematico di un altro capitolo, faremo dei laboratori con donne Over 70 sul tema del piacere, partendo dal fatto che nella società araba de Le mille e una notte alle anziane era affidato il compito di educare al piacere sessuale.
Quali sono i vostri maestri e i riferimenti principali a cui vi affidate, o che vi hanno segnato di più?
Il fatto che ci piace usare linguaggi diversi ci permette di guardare a riferimenti diversi, anche provenienti da discipline altre rispetto a quella teatrale. Questo è in contrasto con la tendenza più diffusa nell’accademia italiana, che tende a trasmettere un particolare modo di fare teatro a nostro avviso troppo legato ad un’idea forte di regia. Sulla scena europea si respira invece molta più libertà: fra i riferimenti possiamo sicuramente fare il nome di Dīmītrīs Papaïōannou, l’artista greco che ha curato le coreografie delle cerimonie olimpiche di Atene 2004, e che porta i suoi lavori in giro per il mondo grazie a un linguaggio così potentemente immaginifico da poter arrivare a chiunque. Ma anche di Simon Stone, regista cinematografico, teatrale e drammaturgo, che ha prodotto delle riscritture da testi di grandi autori come Cechov, Ibsen, Shakespeare e Middleton. Se si tratta di un lavoro che investe piani diversissimi rispetto a quelli del coreografo greco, ponendosi più, per così dire, sul piano della parola, troviamo però che in entrambi i casi si raggiunga comunque un respiro universale. In Italia possiamo citare invece Antonio Latella, per la libertà che trasmette nel porre come suoi centri lo studio applicato alla drammaturgia.
Si parla molto delle difficoltà a compaginare il processo creativo con le difficoltà economiche legate alla scarsa circuitazione, soprattutto per le giovani compagnie. Esiste per voi questo disagio? Come lo vivete?
Una forma di disagio che ci sembra abbastanza evidente nei circuiti nostrani è che si parla quasi solo di teatro italiano. In altri settori artistici, ad esempio in quello musicale, non è così. Anche per questo vorremmo che il nostro progetto parli più linguaggi e più lingue, e si muovesse nella direzione dei circuiti internazionali. In generale, poi, in ambito italiano notiamo una forte tendenza alla deprofessionalizzazione. Noi, per esempio, ci autoproduciamo, quindi non possiamo guadagnarci da vivere col solo spettacolo. E se, in generale, il lavoro dei registi, degli attori e dei tecnici, nel migliore dei casi viene retribuito col minimo sindacale, tutto il lavoro di ricerca a monte, che nel nostro caso è notevole, non viene neanche minimamente riconosciuto. È l’idea stessa di teatro come lavoro a venire meno. Nella nostra esperienza all’estero, invece, il lavoro artistico è percepito e riconosciuto al pari di qualsiasi altro lavoro. Un’altra forte criticità riguarda il sistema dei bandi: sono sempre rivolti alle compagnie. Quando si è giovani, però, essere vincolati a lavorare con le stesse persone può essere anche limitante sul piano della formazione. Al contrario, i Teatri Stabili lavorano rivolgendosi ai singoli: c’è troppa discrepanza fra questi due segmenti della circuitazione, ma è anche vero che la mancanza di fondi può portare a scoprire delle modalità di autofinanziamento interessanti: per finanziare Le mille e una notte abbiamo organizzato delle feste, che ci sono state utili per procurarci alcuni materiali di scena.
Quale pensate debba essere il ruolo della critica teatrale rispetto al vostro lavoro, al processo creativo?
Non conosciamo personalmente critici, però facciamo molte prove aperte. Spesso abbiamo provato a invitare i critici che preferiamo leggere, cercando i contatti in rete: contatti che però non sempre si trovano, e va detto che anche quando si trovano quasi sempre non si riceve risposta. Abbiamo notato che anche questo atteggiamento all’estero è diverso, purtroppo. Quindi il rapporto con la critica si riduce di fatto alla lettura: leggere ci aiuta ad allenare lo sguardo, ad arrivare preparati all’incontro con gli spettacoli.