Tim Presley – I Have To Feed Larry’s Hawk
Il musicista americano Tim Presley, storico collaboratore di Ty Segall e di Cate Le Bon e membro di numerose formazioni musicali, torna con il suo progetto solista White Fence dopo quattro anni dall’ultimo tentativo For the recently found innocent. Il disco appena uscito si intitola I Have to Feed Larry’s Hawk; pubblicato dall’etichetta Drag City, è stato scritto ed arrangiato in Inghilterra con l’amica pianista Cat Le Bon e registrato a San Francisco insieme a Jeremy Harris che ha partecipato suonando le tastiere e la batteria. I Have to Feed Larry’s Hawk è un album composito e generoso; c’è di sicuro una costante strumentale data dall’utilizzo di tastiere, chitarre e piano ma anche dalla generale allure lo-fi che accompagna le quattordici tracce le quali si presentano invece completamente differenti l’una dall’altra facendo di questo un lavoro caleidoscopico. Si comincia con la title-track dal sapore vagamente psichedelico che ricorda gli inizi della carriera di Presley con la band rock Darker my love e che a tratti disorienta con un impercettibile effetto di passaggio stereo-mono confuso dai cori. Più ricco è l’arrangiamento di Phone, dove una batteria cadenza il ritmo mentre sulla coda si avvertono gli effetti del synth che deviano l’andamento vagamente bucolico che ha il pezzo, così come pure l’intero album ad eccezione di pezzi come Neighborhood light dal sapore decisamente garage e a tratti folk o di I can Dream you dall’andamento melodico-soporifero. Il pop di Until you Walk viene contraddetto da una chitarra che accompagna il reef centrale mentre annuncia un cambio di registro sul finire del pezzo. I Saw Snow Today ha una intro trascinata da rock anni cinquanta alla Presley, l’altro, celebre antesignano del rock. In Indisposed il piano domina la scena così come in Forever Chained dove si contamina di jazz e saltella tra i piatti di una batteria. Il pezzo più curioso del disco è però senza ombra di dubbio Harm Reduction, presentato in due versioni: Morning e Street & Inside Mind. Si tratta di una vera e propria operazione di alienamento a scopi riabilitativi, si gira velocemente in loop all’interno di un videogiochi anni 80 mentre il synth manda in circolo per ben otto minuti uno psichedelico noise di sottofondo che ricorda il Presley prima maniera. È la prova del fatto che la ricerca di se stessi, della propria cifra artistica, sta sì nella capacità di innovare e di sperimentare (e in quanto a sperimentazione questo disco la dice lunga) ma anche nel saper recuperare quanto di buono si è seminato in passato senza per questo pretendere di campare di rendita o abbandonarsi a un sentimento nostalgico e arenante: is always a danger in living the past è difatti il motivo che chiude Fog City. Il vecchio e il nuovo convivono insomma, almeno in parte, in questo ultimo lavoro di White Fence; ci riferiamo al mood low fidelity citato poc’anzi e che ha caraterizzato le prime produzioni di un giovane Presley nei primi anni del duemila, quando registrava nel suo appartamento con i pochi mezzi a disposizione. Le successive collaborazioni portarono poi l’artista ad abbandonare questa direzione per convertirsi a produzioni più sofisticate, ma in quest ultimo lavoro torna invece la tendenza al basso profilo ricercato stavolta in maniera consapevole e che non sta a dire mancanza di mezzi ma sobrietà, ricercata qui nell’utilizzo di pochi strumenti capaci di interpretare ben quattordici tracce diverse. Un lavoro complesso insomma che guarda in avanti raccontando anche un po’ del passato, è in altre parole un disco moderno registrato su un vinile.