“L’uomo nel diluvio” e l’urgenza di un Paese in cui si è costretti a partire. Intervista a Valerio Malorni
Domani, venerdì 12 aprile si terrà la serata conclusiva della quarta edizione della Stagione salernitana Mutaverso Teatro. In scena all’Auditorium del Centro Sociale del quartiere Pastena, L’uomo nel diluvio di Simone Amendola e Valerio Malorni, uno spettacolo che ha ricevuto diversi riconoscimenti nazionali, tra cui il Premio In-Box 2014 e la segnalazione al Premio Rete Critica nello stesso anno.
Lo spettacolo, interpretato da Valerio Malorni, si confronta con lo spettatore su un’urgenza generazionale, della società e del paese in cui ci sentiamo costretti a vivere. In un momento in cui la parola “emigrazione” è così tragica e reale, con una narrazione originale, percorrendo la linea sottile che separa la verità della persona e quella del personaggio, lo spettacolo inscena una storia individuale che diventa collettiva, per una necessità condivisa di speranze e di possibilità da realizzare. Ne abbiamo parlato con Valerio Malorni.
Chi è L’uomo nel diluvio? Quanto c’è di autobiografico nella storia “di un italiano in fuga” in Valerio Malorni, che però ha deciso di continuare a resistere nel nostro Paese?
Di autobiografico c’è una metà del bicchiere mezzo pieno, delle motivazioni da cui parte lo spettacolo. Da parte mia e di Simone c’è l’urgenza di partire, la voglia di voler viaggiare, che però si scontra con l’urgenza di un Paese in cui sei più costretto a partire che a scegliere di viaggiare. Di vero c’è l’urgenza di lasciar la terra natia per immaginare un futuro. Il bicchiere mezzo vuoto è l’immaginazione che riempie il viaggio, di un racconto che è il racconto di quest’uomo che si trasferisce a Berlino, un emigrante italiano. Una storia che non è avvenuta ma che poteva benissimo avvenire, e proprio, forse, in virtù del fatto che l’abbiamo raccontata, alla fine poi non l’abbiamo vissuta, ma ci siamo ritrovati a viaggiare in quello stesso Paese dal quale volevamo partire, alla ricerca di una terra, di un altrove. Nell’arco dello spettacolo poi si fonda una consapevolezza del personaggio per cui non fa la differenza se la terra sia di qui o di là, ma è “come” riesci a “vivere”, per non “sopravvivere”.
Cioè?
Non ce la si fa più a sopravvivere e basta. Siamo in un Paese in cui si sopravvive a stento, non si “vive”. Dall’altra parte, dove ti sposti comunque la battaglia rimane, il vivere viene dato anche da un modo di vivere le cose, da un modo di sentirsi protagonisti della vita, di riuscire a farcela con quello in cui uno crede. Non è il contesto che te lo regala, ma anche il modo in cui tu cerchi le cose, nella condizione di poterle sentire.
Il protagonista è un novello Noè, ovvero un uomo testimone del fallimento di Dio. Se Dio in questo caso fosse il nostro Paese, o meglio il nostro Stato, quanto c’è di sacro nell’istituzione?
Di sacro c’è il fatto che lo stato è pubblico, di tutti. Di sacro rimane il fatto che dovrebbe essere uno specchio di una condizione collettiva, di regole e luoghi comuni per poter convivere. E di sacro c’è, dall’altra parte, la dogmaticità. Come nella religione, la dogmaticità di uno Stato mette la mano senza mettersi in rapporto ai singoli, agisce un po’ a prescindere da quella che è la vita reale.
Fallimento del Paese ma anche fallimento di alcuni settori, non ultimo quello del giornalismo e della critica teatrale. In questo senso, la critica del Der Spiegel è senza dubbio efficace. Quanto parallelismo c’è tra una macrostruttura come quella del sistema Paese e una micro-macrostruttura del sistema teatrale?
C’è un parallelismo nei termini in cui c’è una corrispondenza. Perché il fallimento del Paese si ripercuote in diversi settori. C’è questa difficoltà di poter esistere, di poter emergere, di poter soprattutto costruire; perché a seminare è il singolo, ed è l’intuizione, ma per costruire e per fare sì che quel seme fiorisca occorre un complesso di rapporti, di sistemi. Questa mancanza di costruzione è dell’Italia tutta, e il dramma è che si riscontra nei vari settori tanto quanto nel sistema generale del Paese. In questo senso, c’è un parallelismo nei termini in cui quello che spesso le persone raccontano è che non pensavano che gli stessi drammi e le stesse difficoltà che vivevano loro in altri settori con altri tipi di lavori fossero gli stessi drammi che si vivono nel mondo del teatro e artistico. In un sistema di specchi, alla fine, vieni a riconoscere come qualsiasi lavoro sia uguale; quell’attore è quel che è semplicemente perché partiamo da quello che siamo noi. Partiamo dal raccontare quello che è quell’attore nel dato momento, per cui non c’è nessuna finzione: sono io che ho questo problema, ma tu ti riconosci in me perché lo stesso lavoro che faccio io lo fai anche tu, anche se vieni da quel mondo diverso; ma il sistema-Paese fa sì che quel lavoro non basti per poter andare al di là del campare alla giornata, per immaginare un domani, ma soprattutto un dopodomani; poter immaginare una vita da costruire al di là delle emergenze del quotidiano, sia in termini metaforici, di poter sognare una vita possibile al di là di oggi e capire dove si può andare, e sia nei termini non metaforici cioè di poter avere una prospettiva e una progettualità tale che ti consente di fare delle scelte non solo sull’emergenza, per riuscire a vedere il presente come un momento della vita e non la vita tutta in un momento perché il giorno dopo poi non sai se ti tocca.
Drammaturgicamente, la storia riesce a toccare vari livelli di lirismo, passando dalla commozione alla rabbia, all’ironia e alle risate. Qual è stato l’equilibrio su cui si è lavorato in fase drammaturgica?
Da una parte è sulla linea del disequilibrio che si può mettere insieme il riso e il pianto, ma la questione è che si ride di una condizione drammatica. Si tratta di riuscire a fare un passo in terza persona e a guardare le cose un po’ più dal di fuori. In questo senso c’è stato un momento drammaturgico in cui si è parlato molto e si è messo dentro molte cose della vita, ci si è confrontati rispetto a quello che è fuori dal teatro. È entrato tutto quello che è il fuori campo che è poi andato a organizzarsi in una struttura, e a dare i suoi equilibri, al di là del riso ed il pianto, giocando sul tempo, andando avanti e indietro e costruendo così un immaginario con lo spettatore. E dentro quell’immaginario, poi, muovere le emozioni diventa una conseguenza anche, nonché un modo di vedere la vita e quello che dev’essere l’arte, a prescindere dal dolore della vita, perché altrimenti non è arte, non avrebbe senso condividerla. Da questo punto di vista, nell’arco dello spettacolo, partendo dal diluvio, passando per la nebbia che lascia senza scelte, e la neve che lascia soli, si arriva a vedere come può piovere per sempre, e l’unica cosa da fare è ballare sotto la pioggia.