Entrare nelle case degli altri per vedere “Come va a pezzi il tempo”. Intervista ad Alessandra Crocco e Alessandro Miele
Da domani venerdì 5 a domenica 7 aprile, per cinque repliche giornaliere e per cinque spettatori alla volta (info qui), all’interno di un’abitazione privata va in scena a Salerno nell’ambito della quarta edizione della stagione Mutaverso Teatro “Come va a pezzi il tempo” del duo Progetto Demoni composto da Alessandra Crocco e Alessandro Miele; salernitana la prima, nato a Pompei il secondo, ed entrambi residenti a Lecce e con all’attivo progetti sparsi sul territorio nazionale. Lo spettacolo ha debuttato durante la scorsa edizione di Kilowatt Festival di Sansepolcro (AR) [recensito tra le nostre pagine] e Salerno sarà la sua seconda tappa, prima di proseguire la sua tournée.
Lo spettatore entra in una casa abbandonata da poco, dove ogni cosa è ancora al suo posto e il tempo sembra essersi fermato. Dal silenzio riaffiorano ricordi, che tessono le fila di una storia d’amore fotografata nel suo graduale declino, ridotta in pezzi, come un sogno ripercorso con la mente al risveglio. Il distacco provato all’ingresso cederà il passo alla sensazione che si prova quando si abbandona un luogo pieno di ricordi. Ne parliamo con i due autori e interpreti.
In Come va a pezzi il tempo rinunciate ad un referente esterno, quale I demoni o la biografia di Francis e Zelda Scott Fitzgerald dei vostri precedenti lavori. Punti di partenza, da cui poi procedevate giungendo ben lontani da risultati “illustrativi”, ma che comunque costituivano un dato materiale, un ancoramento a riferimenti cui anche il pubblico poteva rifarsi. Cosa vi ha portato a rinunciare a queste fondamenta? E che risultati ha prodotto?
L’idea alla base di Come va a pezzi il tempo nasce proprio dal luogo in cui è ambientato lo spettacolo. Volevamo raccontare la sensazione che si prova entrando in una casa che è stata abbandonata da poco. Non c’è più nessuno, ma le stanze e gli oggetti portano i segni delle vite di chi l’ha abitata. I ricordi di ognuno di noi sono fortemente legati alla casa, soprattutto se vi abbiamo trascorso molto tempo. Il meccanismo del ricordo ci sorprende, a volte viene attivato da un oggetto insignificante e fa riaffiorare flash, frammenti anche banali. Nella casa viviamo momenti felici, consolidiamo delle abitudini che all’inizio ci fanno sentire sicuri ma che con l’andare del tempo possono diventare opprimenti. A partire da questa suggestione legata al luogo, abbiamo cercato anche in questo caso dei riferimenti letterari. Solo che questa volta il materiale trovato è stato utilizzato più come nutrimento per le nostre improvvisazioni. È stato naturale orientarsi verso scrittori che hanno raccontato la dimensione di coppia, quindi sicuramente ancora Fitzgerald, che tanto ha sviscerato il rapporto amoroso, anche grazie alle intuizioni di sua moglie Zelda. E poi abbiamo attinto da Revolutionary Road di Richard Yates. Anche lì la casa all’inizio è un traguardo per i giovani protagonisti e poi diventa una prigione, un luogo da cui scappare per ritrovare la felicità. Ci è sembrato chiaro fin dal principio che la quotidianità che volevamo narrare, per diventare credibile e universale agli occhi degli spettatori, non poteva attingere direttamente a un’opera letteraria. Dovevamo partire dai luoghi, dalle situazioni, da momenti universali e iconici della vita di una casa, e di una coppia. La creazione è avvenuta seguendo due linee parallele, quella dell’ideazione a tavolino e quella della scrittura scenica. E quest’ultima è quella che nei nostri lavori prevale sempre, guida sempre la scena, lo spettacolo. Il testo è al servizio della scena e può essere anche stravolto o tradito. Rispetto a Lost Generation in cui avevamo come riferimento una coppia mitica come quella dei Fitzgerald, qui abbiamo avuto modo di esplorare un altro aspetto dello stesso tema, più intimo e quotidiano.
Come va a pezzi il tempo va in scena fra le mura domestiche, per pochi spettatori, in più repliche ravvicinate. In che modo la presenza di un pubblico tanto vicino, così esiguo da poter riconoscerne e memorizzare la presenza fisica, influenza il modo e il senso della prassi scenica?
Lo spettacolo ha una struttura che procede indipendentemente dal pubblico. Gli spettatori non sono chiamati a interagire o a cambiare la storia. Molti pensano che uno spettacolo per pochi spettatori debba essere per forza interattivo. A noi invece questa strada per il momento non interessa. Cerchiamo piuttosto di immergere lo spettatore dentro la storia in modo da spingerlo ad essere il più possibile presente insieme a noi.
In Demoni – Frammenti lo spettatore era quasi parte del racconto: le figure di Dostoevskij parlavano a lui come a un altro personaggio del romanzo. Qui invece lo spettatore è chiamato a essere testimone di una storia che gli scorre davanti, ad assistere al dipanarsi di ricordi di altre vite che si ripetono per lui. Anche in questo caso abbiamo costruito dei brevi frammenti di una storia, dei momenti chiave, dei cuori. Dal punto di vista del lavoro d’attore la recitazione è essenziale, ridotta all’osso. Cerchiamo di stare insieme al pubblico appoggiandoci su delle atmosfere e ricreare una bolla magica, uno scivolamento altrove. Quindi, nonostante gli spettacoli siano ambientati in luoghi domestici, non c’è niente di naturalistico nella recitazione.
Se l’abitare è un’invariante antropologica (e per alcuni filosofica), è anche vero che la casa, scena dell’abitare, varia di latitudine in latitudine. Faenza, Sansepolcro, Lecce, ora Salerno. Site-specific è una parola chiave del vostro lavoro? Considerata l’unicità di ogni casa, in che misura ricostruite la performance di volta in volta? Come scegliete il luogo per la messinscena?
Per alcuni lavori, site-specific è di sicuro una parola chiave. Non è una regola, ma guida spesso il nostro modo di lavorare. Questo avviene anche perché i luoghi in cui abbiamo provato in passato gli spettacoli erano spazi non teatrali: palazzi nobiliari, vecchie stanze, case. Lavorando molto sulla scrittura di scena, sull’improvvisazione, sull’ascolto delle atmosfere e dei luoghi, come anche della luce e delle ore del giorno, lo spettacolo ne viene molto influenzato. Quando lo replichiamo in un’altra città la prima cosa è trovare le location giuste. Cerchiamo posti che siano adatti, non posti qualsiasi e non modifichiamo notevolmente il nostro spettacolo per adattarlo al luogo, e viceversa. Ci sembra importante trovare il luogo che sia in grado di ospitare il nostro progetto. Questo sembra sempre impossibile e difficile, invece di luoghi suggestivi ne esistono molti, basta solo fare uno sforzo per scovarli. Poi è anche vero che un pochino ti riadatti al luogo, lo vivi, lo ascolti, ti ci innesti con consapevolezza, delicatezza. Il lavoro sui luoghi è anche alla base di un progetto che abbiamo creato in Salento che si chiama Ultimi Fuochi Festival. Facciamo spettacoli all’ora del tramonto in luoghi immersi nella natura. Gli spettatori sanno quale spettacolo andranno a vedere ma non dove e vengono portati sul posto con delle navette. In questo modo vivono l’emozione di scoprire un luogo illuminato dagli ultimi fuochi del giorno e si predispongono alla visione dello spettacolo che si installa senza scenografie, nella natura.
Le mura domestiche implicano non solo una riduzione volumetrica, ma anche emotiva dello spazio scenico. La scenografia (se la parola ha senso in questo caso) diventa una materia segnata, già intrisa di senso e memoria, indipendente da voi e ben diversa dallo spazio isotropo del palcoscenico. Cosa cercate in queste case d’altri, e come lo cercate? Come si sovrascrivono la vostra scrittura e quella del luogo?
La scrittura del luogo diventa nostra, e la nostra storia diventa la storia del luogo. Non vogliamo ricreare noi, artificialmente, le atmosfere del luogo che scegliamo, ma riconoscerle, scovarle e lavorare in simbiosi con esse. L’appartamento in cui siamo stati in residenza e in cui ha debuttato Come va a pezzi il tempo a Kilowatt Festival ha fortemente determinato alcuni passaggi dello spettacolo. Salerno è la seconda tappa. Entreremo in un’altra casa, altrettanto speciale e siamo pronti a ricevere nuovi stimoli. Così sarà anche a Foligno dove andremo in scena la settimana prossima all’interno della stagione di Zut!.
Con Mutaverso Teatro tornate nella vostra regione (e Alessandra proprio nella sua città). Inoltre nel 2017 avete già partecipato a Mutaverso Teatro. Com’è tornare a casa? Oggi siete residenti a Lecce, c’è una distanza culturale significativa fra questi due poli importanti, anche per le realtà teatrali, del Meridione?
Alessandra Crocco: Tornare a casa è sempre bello, soprattutto perché ultimamente riusciamo a farlo molto raramente. Proprio per questo non riesco a fare valutazioni sulla realtà teatrale salernitana. Sono andata via a diciotto anni e da allora non ho più lavorato in città, a parte l’esperienza molto positiva con Mutaverso Teatro nel 2017. So che Vincenzo [Albano, ndr] sta facendo un bellissimo lavoro, che spero diventi sempre più necessario per gli abitanti e per la città. Poi casa ormai è anche la Puglia, soprattutto i piccoli comuni in provincia di Lecce, dove facciamo da diversi anni i laboratori. Il rapporto con i ragazzi è linfa vitale per il nostro lavoro.
Alessandro Miele: Ci piace molto andare in giro. Quest’anno una volta a settimana abbiamo fatto tappa a Ravenna per guidare una non-scuola del Teatro delle Albe. Saremo attori e guide anche nel Purgatorio del Teatro delle Albe, che debutterà a Matera a metà maggio. È vero, però, che è un piacere tornare a casa. In Campania in questo periodo ci riporta anche un altro progetto, La rivoluzione dei libri, che dopo una felice prima edizione a Lecce l’anno scorso, ora è uno dei progetti speciali all’interno del Napoli Teatro Festival 2019. Stiamo formando una rete di gruppi di lettura segreti, intergenerazionali, capeggiati da adolescenti che porteranno alla creazione di una serie di percorsi sonori nella città di Napoli. A luglio ci sarà poi l’esito del progetto, con la presentazione dei nostri spettacoli e un incontro pubblico con lettori ribelli e alcuni esperti.
[Immagine di copertina: foto di Luca Del Pia]