“I giganti della montagna” di Gabriele Lavia: danzando sulla superficie di un mito
Quello de I giganti della montagna è un testo che continua a interrogare i meccanismi della messa in scena, il senso del rappresentare, la prassi intera del teatro. Una drammaturgia che contiene meccanismi di gran lunga trascendenti la parola, ramificati in sinestesie di suoni e immagini che popolano i dialoghi e le note al testo. Se poi in scena c’è Gabriele Lavia, comunque un maestro del suo linguaggio, è inevitabile andare a teatro in partenza con un’impressione positiva. E si dà qui, al termine impressione, la sua connotazione estetico-epistemologica più propria: quella di una conoscenza chiara ma indistinta, per dirla con Leibniz. Una categorizzazione, cioè, che risponde ad un insight tanto oggettivo quanto non filtrato da una valutazione critica. E così è stato.
Lo spettacolo visto a Roma al Teatro Eliseo e qui in scena fino a domani 31 marzo si apre su una grandiosa scenografia: l’idea, altisonante ed efficace, ma certo non originalissima, è quella di materializzare un metaforico specchio fra la platea e il palcoscenico; visualizziamo un diruto emiciclo all’italiana riprodotto con dovizia di dettagli, un colpo d’occhio magniloquente, più prossimo a certe scenografie liriche che agli spettacoli di prosa. Alla villa “La Scalogna” si sostituisce dunque un altro tipo architettonico: il teatro stesso (all’italiana). Popola la scena una moltitudine chiassosa: una volta tanto la variopinta fauna degli Scalognati appare in carne, ossa e ricchi costumi, dopo una lunga tradizione di regie “in economia”, di elisioni che, vuoi per scelta vuoi per necessità, condensavano i molti personaggi del dramma pirandelliano in pochi attori, se non addirittura in uno solo. Ma certo è una gioia visiva, uditiva, cinestetica, veder trasposto quel formicolio esistenziale che innerva la drammaturgia. Dirige la compagine Gabriele Lavia, che è un Cotrone impeccabile, va detto. Da ogni angolo della sala la qualità del suo gesto e l’intonazione della voce giungono perfettamente sferiche, senza apparente scarto tra intenzione interpretativa e risultato. La recitazione di Lavia ha una perfezione, per così dire, atmosferica. Sembra cioè corrispondere, metonimicamente, alla poetica tutta dell’ultimo Pirandello, una corrente carsica che infonde una vibrazione leggera ma irrefrenabile ad ogni segno. Pare persino che se il dramma dello scrittore girgentino avesse un odore, sarebbe quello che Lavia infonde fra le poltrone dell’Eliseo. La sua figura occupa dunque saldamente un centro. Si percepisce comunque la volontà di calmierare il volume interpretativo, per non sovrastare un collettivo il cui volume sonoro e visivo è già sopra le righe. Eppure, o forse ancor di più, quel polo inghiotte gli equilibri di palco. Si profila un disegno duale: Lavia-Cotrone ha come suo doppio non tanto la restante compagine attoriale, ma la scenografia stessa, ovvero la metafora visibile della condizione del teatro. Ogni segno risuona in un piano fisico e metaforico “altro” rispetto a quello del mero intrattenimento, facendo della scena un metapaesaggio che illumina il discorso metateatrale tipicamente pirandelliano. Una circolarità che dunque, se fosse scelta ermeneutica a monte, non sarebbe di certo avulsa dal testo. Cotrone è il dominus della villa degli Scalognati: a conti fatti, lo spettatore (o il lettore) non può risolvere (non deve risolvere) il dubbio se quel mondo-nel-mondo sia altro che una diafanìa nella mente del mago, una pura azione demonica. Cotrone è in effetti l’alias perfetto della figura stessa del regista, epitome dell’opera pirandelliana che propizia l’avvento rivoluzionario del teatro di regia criticamente inteso. Questa consapevolezza Lavia porta alle estreme conseguenze: intorno a lui si muovono interpretazioni valide, ma segnate da un carattere macchiettistico, che pur esaltando la temperie onirica del dramma, ne limita lo spessore. Ilse è forse l’unico personaggio che, nel magnetico corpo di Federica Di Martino, incontra la parola e la statura di Cotrone in un dialogo autentico. Meno efficaci gli altri personaggi, in cui movimenti, per quanto ampi ed espressionistici, sembrano annullarsi intorno alla misura pacata del regista-mago Lavia. La “compagnia della Contessa” retrocede dunque al fondale esistenziale degli Scalognati stessi, trascurando quel potenziale ruolo di contrappeso drammaturgico che alimenterebbe l’attualissimo dibattito vita-arte, realtà-finzione di cui già Pirandello aveva gettato il seme. Così alla recitazione magistrale e polarizzante di Lavia deve far da contraltare il piano visivo stesso dell’opera: lo spettacolo come montaggio d’immagini. Piano impreziosito dalle coreografie dei fantocci e dall’illuminazione certamente suggestiva, che proietta bagliori ora lunari ora psichedelici d’indubbia pregnanza.
Tentiamo un bilancio. I giganti della montagna tematizzò una crisi sociale e artistica (o per meglio dire estetica ed epistemologica) che mise in fecondo subbuglio la storia del teatro novecentesco. Si tratta, per usare le parole di Cotrone stesso, del «fallimento della poesia della cristianità». L’estetica di un’interpretazione come questa vista all’Eliseo ricade, però, nel nucleo di quella crisi: la coglie, ma poi vi indugia. Riduce i conflitti insiti nella drammaturgia ad un – seppur suggestivo – caleidoscopio d’immagini. Lavia danza da par suo sulla superficie dell’opera pirandelliana, ed è una gioia per gli occhi: si tratta infatti di una superficie splendida, ma oltre la quale si è perso, almeno in parte, un più consistente mistero.