Arti Performative Mutaverso Teatro

“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Di un bambino dalle orecchie grandi”. Intervista ai Teatrodilina

Andrea Zangari

La stagione Mutaverso Teatro diretta a Salerno da Vincenzo Albano prosegue domani 8 marzo, presso l’Auditorium del Centro Sociale di via R. Cantarella 22, con la compagnia Teatrodilina e lo spettacolo “Il bambino dalle orecchie grandi”, scritto e diretto da Francesco Lagi.
Anna Bellato e Leonardo Maddalena interpretano una coppia fresca di formazione, un uomo e una donna che si avviano a star insieme. Condividono lo spazio scenico tra note lievi e incerte, in bilico tra il loro presente e il loro passato, tra quella sensazione, bellissima, di essere un amore tutto nuovo, ma anche la sottile paura di rivivere in qualche modo un’esperienza già vissuta. Lo spettacolo analizza liricamente le fasi e gli effetti dell’innamoramento, l’attimo prima che l’interesse e la curiosità si facciano piacere e desiderio, il momento in cui lo straniamento cede il posto allo stato di grazia dell’amore. Ne abbiamo parlato con l’autore e regista, Francesco Lagi.

Leonardo Maddalena e Anna Bellato in “Il bambino dalle orecchie grandi”. Foto di Loris Zambelli

Parliamo di Teatrodilina. Com’è nato il progetto e cosa vi tiene insieme?
Teatrodilina è una compagnia che ormai ha quasi dieci anni. Siamo un gruppo piuttosto stabile, un nucleo di cinque, sei, sette persone fra attori, collaboratori e tecnici. Quello che abbiamo messo a fuoco e che ci piace fare è scrivere i nostri testi, mettendo in scena le storie che ci interessano e coinvolgono nel momento in cui decidiamo di farlo, e scegliendo di raccontare una testimonianza di questi tempi complicati che viviamo, e al tempo stesso una testimonianza di noi stessi. 

In dieci anni avete portato in scena dieci spettacoli. Un’attività densa e costante. Com’è cambiato, se è cambiato, in questo lasso di tempo il vostro modo di fare teatro?

Sì, il nostro teatro si è raffinato. Se penso a quando abbiamo iniziato, andavamo per tentativi, quello che decidevamo di raccontare poteva venire da un testo preesistente, da una drammaturgia derivata. Poi abbiamo capito che la gioia e il senso della nostra ricerca teatrale ed espressiva è una forma di originalità. Abbiamo quindi affinato la scrittura e il rapporto tra scrittura e attore, che ci sembra la cosa più interessante del fare teatro. Questo dialogo e la sua trasformazione, lo scontro, l’orchestrazione tra la parola detta e la parola scritta, è infatti una delle cose che più ci interessano.

In una tendenza allo sbiadimento della demarcazione fra teatro e performance, il vostro modo di stare in scena denuncia un impianto drammaturgico e registico chiaro, legato alla preminenza della parola. Qual è il significato storico di questa centralità?

Riteniamo che la forma di racconto che noi facciamo abbia un senso particolare: ci piace restituire al racconto una forma ordinata, mettere insieme e in ordine i pezzi di un racconto. Fare ordine tra i sentimenti di un personaggio dall’inizio alla fine è un po’ come ritornare a casa e trovarla ordinata. Ognuno prova gusto nel fare ciò che gli riesce meglio. Io non so quale significato possa avere questa centralità della parola, se non il gusto stesso del raccontare. Ci sembra che fare a meno del racconto o dei personaggi ci dispiacerebbe molto, sarebbe come perdere l’essenza di una questione. Non siamo ancora pronti per fare a meno del racconto, così come del personaggio, e quindi, della parola, del gesto e dell’interpretazione.

Scorrendo i vostri lavori, salta all’occhio un’attenzione per i racconti semplici, le vicende quotidiane, tragedie piccole, pervase di un afflato favolistico. Che cosa c’è di speciale nell’apparente normalità delle situazioni umane che portate in scena?

Mi colpisce, ed è una scoperta molto semplice che ho fatto, vedere che quando sei su un palco e ci sono delle persone che ti osservano se fai un gesto straordinario come una piroetta o un salto carpiato ha un valore; ma se tu lasci una scarpa, ti gratti il naso, fai anche il gesto più piccolo e insignificante in un modo qualitativamente pregnante, risuona in un modo completamente diverso. Scoprire che la situazione teatrale riesce ad amplificare e a rendere nuove delle cose quotidiane è molto interessante, produce una sorta di straniamento. Quello che chiamiamo “quotidiano”, se fatto con qualità, viene spostato su un piano diverso e assume un’altra musicalità.

Leonardo Maddalena e Anna Bellato in “Il bambino dalle orecchie grandi”. Foto di Loris Zambelli

Com’è nato “Il bambino dalle orecchie grandi”? Come hai lavorato con i due attori?

Questo spettacolo è nato proprio per Leonardo Maddalena e Anna Bellato. Conosco i loro volti, il loro modo di essere attori, e quindi il testo è nato per loro e con loro. E senza di loro non potrebbe essere in altro modo. Non è che io porto un testo o qualcuno porta un testo e cerchiamo di capire come incastrarci dentro. Il discorso di come ci possiamo incastrare in un testo è preliminare al testo stesso. In questo senso, la scrittura è per gli attori e non è mai un processo concluso. Si affina ogni volta. Ovviamente, Leonardo e Anna sono il tassello di un gruppo che a volte si presenta in tre, altre volte in quattro; è una continuità questa messa in scena rispetto ad altri lavori, ed è uno spettacolo, questo, legato in qualche modo agli altri.

Perché uno spettatore dovrebbe venire a vedere “Il bambino dalla orecchie grandi”?

Perché è una cosa che lo riguarda. Quando dico che per noi il racconto ha un significato alto lo dico perché sento che abbiamo bisogno, in quanto individui, di racconti ordinati e ben fatti. La nostra sfida è che questo spettacolo ti riguardi e questa storia ti parli, e i personaggi ti parlino, ti assomiglino e ti dicano qualcosa di te e del tuo stare al mondo. È la storia di una coppia, di una relazione, e d’amore.

Se l’amore è al centro della scena ne “Il bambino dalla orecchie grandi”, possiamo finirla à la Raymond Carver: “di cosa parliamo quando parliamo d’amore?”

È difficile rispondere a questa domanda, e la risposta non può essere una parola soltanto. Per questo noi rispondiamo con questo spettacolo. La nostra risposta a questa domanda è esattamente un dipanare di cose. Raccontare vuol dire dare delle risposte complesse. Ecco, la risposta non saprei sintetizzarla se non attraverso questo spettacolo.

[Immagine di copertina: foto di Loris Zambelli]



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