“L’alienazione da social network è soltanto la punta di una questione ben più profonda”: intervista ai Frigoproduzioni in scena a Mutaverso Teatro
Frigoproduzioni è il progetto artistico di Francesco Alberici, Daniele Turconi e Claudia Marsicano (quest’ultima salita alla ribalta con la vittoria del Premio UBU 2017 alla migliore attrice/performer under 35). Conosciutisi e formatisi presso la “Scuola di Teatro di Quelli di Grock”, si sono perfezionati attraverso il lavoro con artisti del calibro di Danio Manfredini, Massimiliano Civica, Daria Deflorian – giusto per nominarne alcuni – apprendendo quelli che poi sono diventati a tutti gli effetti gli strumenti utilizzati per esprimere la loro poetica. Nel 2014 mettono in scena il loro primo lavoro, Socialmente (cui farà seguito Tropicana), prodotto da Gli Scarti, che a distanza di cinque anni dal debutto, e dopo numerosi apprezzamenti di pubblico e di critica, arriva a Salerno domani, 15 febbraio, presso l’Auditorium del Centro Sociale (via R. Cantarella 22, zona Pastena) all’interno della stagione Mutaverso Teatro, di cui Scene Contemporanee è partner e sostenitore.
L’occasione, che sarà una prima regionale e data unica in Campania, così, è stata naturale per scambiare delle riflessioni con Francesco Alberici, proprio partendo dal lavoro che porteranno a Salerno.
Da dove è nata l’esigenza di parlare di alienazione e di mondo social, temi alla base del vostro lavoro Socialmente?
Socialmente è il primo lavoro come Frigoproduzioni e il primo in assoluto come autori e registi. Io e Claudia Marsicano avevamo deciso di fare uno spettacolo assieme e abbiamo iniziato a incontrarci per decidere di che cosa avremmo parlato: a ogni incontro ci perdevamo nel guardare sequenze di video scemi su YouTube o a controllare le notifiche di Facebook e Whatsapp. In uno di quei rari lampi di onestà verso se stessi, abbiamo ammesso l’un l’altro che avremmo dovuto parlare proprio di questa “dispersione”. Al di là dell’aneddoto, guardando indietro a quel momento a distanza di qualche anno, direi che l’esigenza di affrontare questi argomenti nasceva da una gigantesca rabbia che provavamo e di cui non conoscevamo le origini precise. Da una non accettazione di quello che eravamo allora. In qualche modo, Socialmente per noi è stata la messa in scena di una gigantesca incazzatura, ma non dai tratti eroici, no: una di quelle incazzature dove perdi la testa, vorresti spaccare tutto, ma mentre ti arrabbi ti rendi anche conto di quanto sei ridicolo.
Lo spettacolo ha ormai qualche anno sulle spalle, in cui ha girato in Italia raccogliendo consensi. Quanto e come credete che, rispetto all’ideazione, sia cambiata (in meglio o in peggio) la concezione di social, considerando che anno dopo anno viviamo in una società in cui questa dimensione è sempre più permeante?
Socialmente è uno spettacolo del 2014. Nell’arco di questi cinque anni Facebook, che al tempo era all’apice del successo, è diventato il social network degli over quarantenni che postano foto di tramonti e augurano a tutti il buongiorno mattina dopo mattina, mentre sono nate altre piattaforme, le quali – come osservava proprio qualche giorno fa Claudia – mi sembra abbiano amplificato alcune singole caratteristiche di Facebook. C’è stata una specializzazione dei social: ad esempio Instagram si concentra sulle foto, TikTok sulla messaggistica video legata ai playback, Snapchat sulla messaggistica istantanea, con i contenuti che vengono cancellati nel giro di 24 ore. Io credo che la diffusione dei social sia un fenomeno che caratterizza questo momento storico, e un fenomeno non è positivo o negativo in toto, un fenomeno è complesso e in quanto tale merita di essere studiato. Dovessi rilavorare oggi sull’argomento, credo che mi affascinerebbe la dinamica di Snapchat, in cui i contenuti vengono eliminati dopo 24 ore: scompare lo storico, la possibilità di avere una memoria e una documentazione.
A ogni modo Socialmente non è uno spettacolo sui social – lo abbiamo ribadito in varie occasioni di dialogo pubblico – ma sull’alienazione e sulla solitudine, sulla fragilità, direi, anche. Quindi il discorso verte sull’umano, e forse su una certa fase della vita, l’adolescenza o la pre-adolescenza più che su un fenomeno articolato come quello dei social. A riprova di questo, una settimana fa abbiamo fatto una replica a Sarezzo, in provincia di Brescia, e dei ragazzi di tredici anni ci hanno fermato, dopo lo spettacolo, per raccontarci quanto il lavoro li avesse personalmente toccati.
Quanto c’è di vissuto autobiografico negli atteggiamenti e nei conflitti dei protagonisti, al netto di una ovvia distorsione grottesca data dalla drammatizzazione e dalla poetica adottata per raccontare questo tema?
I protagonisti di Socialmente erano senza dubbio delle caricature grottesche e demenziali di noi stessi a quel tempo. Erano delle nostre proiezioni, per essere più precisi: le proiezioni di ciò che sentivamo di essere e di ciò che avevamo paura di essere. Erano i nostri mostri. E metterli(-ci) in scena in quel modo penso che abbia rappresentato contemporaneamente una sorta di esorcismo e di confessione pubblica. Ci divertiva rappresentarci in quel modo, ma faceva anche provare un forte senso di vergogna.
Tuttavia, assieme a Claudia abbiamo riflettuto sul fatto che, con gli anni, ci siamo molto distanziati da quelle figure. Quelli non sono più – grazie a dio – i nostri doppi distorti, i nostri doppelgänger; e questo ci ha consentito di maturare una certa tenerezza nei loro confronti. Se prima fare questo spettacolo ci faceva salire una rabbia dai contorni imprecisati, e quei personaggi ci schifavano e li guardavamo con un certo cinismo, oggi gli vogliamo bene, vorremmo abbracciarli.
C’è una critica tecnologica e/o più in generale al progresso? Cioè, per spiegarsi meglio, il concetto di alienazione, presente in forme più disparate lungo tutto il cammino della storia dell’uomo, è acuito nella società contemporanea dalla tecnologia e dal mondo dei social, che l’ha aggravato, o la tecnologia diventa semplicemente il mezzo con cui nella società contemporanea si esprime questa alienazione atavica?
Il nostro spettacolo, proprio perché non è tanto una riflessione sul fenomeno dei social, quanto sulla solitudine, sul senso di inadeguatezza e sulla difficoltà di accettarsi, non include una critica allo sviluppo tecnologico né al “progresso”. La figura dell’outsider non è certo nata con i social network, né la difficoltà a essere accettati o a sentirsi parte di un contesto più ampio. Direi che basta leggere Kafka per accorgersi che è una questione con radici ben più profonde. Detto questo, non saprei dire che ruolo giochino i social nel diffuso senso di alienazione che si percepisce in quest’epoca. I fenomeni sociali sono complessi e i fattori che li originano sono numerosi e sfuggenti. Posso, però, esprimere un parere personale. Come società aderiamo molto profondamente – tanto profondamente da non esserne quasi consci – a un impianto ideologico, che definirei performativo: viviamo il successo personale (e individuale) come unico riscatto possibile, fingiamo che non esistano più le classi sociali, fingiamo di partire tutti dallo stesso punto e che tutto si basi sul merito, sulla capacità e sulla buona volontà degli individui, viviamo la fragilità come debolezza e non ammettiamo la sconfitta e il fallimento come componenti naturali di un percorso di vita, ma li viviamo come tragiche punizioni del fato. L’alienazione da social network è soltanto la punta di una questione ben più intricata e profonda.
Il rapporto di Socialmente (in termini professionali: comunicazione, distribuzione, contatti, ecc.) con i social network come diventa? Appendice extra dello spettacolo, in quanto inevitabilmente in parte avvitamento dello stesso, oppure strumento di superamento della realtà dello spettacolo?
I social network sono una piattaforma indispensabile per promuovere il lavoro artistico oggi: funziona così tanto per chi fa teatro, quanto per i musicisti o i fumettisti e gli illustratori. Non si può prescindere dal contesto in cui ci si muove. E il contesto dei social non è negativo in sé e per sé. Sarebbe ottuso affermarlo. I social sono degli strumenti complessi e importanti coi quali fare i conti, con un potenziale anche enormemente positivo. Per fare un esempio su tutti, basti pensare al ruolo che giocò Twitter nella Primavera Araba. Quindi, noi li utilizziamo. E li utilizziamo con una certa libertà, forse anche ingenuità: ci divertiamo a fare dei video col cellulare, sempre diversi, per promuovere lo spettacolo, replica dopo replica, o durante le residenze. Li utilizziamo per promuovere le tournée o pubblicare recensioni, interventi e interviste, che offrano, per chi ne ha voglia, la possibilità di approfondire il nostro lavoro.
Questa, ad esempio, penso che la pubblicheremo.