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La ricerca di una collocazione all’interno di uno spazio che è “oltre”: intervista a Viola Graziosi

Renata Savo

In questi giorni, in scena a Milano c’è Viola Graziosi, che ha appena debuttato al Teatro i con Penthy sur la bande (Pentesilea, l’anima di una marionetta), versione sonora della Pentesilea di Kleist che sarà in cartellone fino al 18 febbraio. Autrice dello spettacolo stavolta, però, è una giovane e promettente drammaturga francese, Magali Mougel, già nota in Francia, ma ancora pressoché sconosciuta in Italia. Ci pensa infatti il progetto Fabulamundi Playwriting Europe a presentarla al nostro paese, attraverso questo spettacolo incarnato da Viola Graziosi, per l’occasione “marionetta sonora” tra le mani del regista Renzo Martinelli.
Lo spettacolo usa la tecnologia olofonica che riproduce una sonorità molto simile a quella percepita dall’orecchio umano: cuffie trasmettono le frequenze direttamente dentro l’orecchio dello spettatore, aderendo quindi alle reali condizioni in cui si compie l’azione drammatica, con un “effetto 3D”. La protagonista Pentesilea, in un eccesso di furore erotico, dopo aver vinto in duello contro Achille, uccide l’amante e arriva a sbranarlo, mangiarlo, per possedere il suo corpo interamente. Scritta in un’epoca che era alle soglie del Romanticismo e nata come libretto d’opera, la Pentesilea di Kleist: da sempre ritenuta di ardua rappresentazione. Trova qui una differente funzione nel testo di Magali Mougel, che lo ripropone in una forma sintetica, tesa all’ascolto più che alla rappresentazione dell’azione cruenta.

Lo spettacolo è in scena nell’ambito del progetto europeo “FABULAMUNDI PLAYWRITING EUROPE – Beyond borders?”, che vede coinvolti teatri, festival e organizzazioni culturali in Europa, con lo scopo di sostenere, promuovere e divulgare la drammaturgia contemporanea dei Paesi coinvolti. Il progetto è stato finanziato tre volte dalla Commissione Europea, e nel 2017 ha vinto la Call di Creative Europe 2017-2020 come progetto di cooperazione su larga scala, e, in Italia, il premio UBU 2017 nella categoria “premi speciali”. Teatro i affianca i partner dell’iniziativa PAV e al festival Short Theatre.

Lasciamo la parola all’interprete, Viola Graziosi.

Viola Graziosi

 

Parliamo brevemente di te. Qual è la tua formazione, chi sono stati i tuoi maestri? O chi consideri dei maestri, al di là dell’averli incontrati di persona o meno.
Sono figlia di un grande attore [Paolo Graziosi, ndr], quindi sono stata svezzata a latte materno e teatro. Fin da piccolissima seguivo tutti gli spettacoli del mio papà, poi gli rubavo i copioni e li ricostruivo interpretandone tutti i ruoli nella mia cameretta. A dodici anni, quando ho espresso ufficialmente la mia determinazione a seguire le sue orme, mi regalò un libro fondamentale, Lo spazio vuoto di Peter Brook, che riconosco come maestro nel senso più alto del termine. Ho avuto la fortuna di incontrarlo per un breve seminario qualche anno fa, ma il suo lavoro mi accompagna da sempre attraverso i suoi spettacoli e i suoi scritti.
Il maestro della mia “formazione sul campo” è Carlo Cecchi, con il quale ho debuttato a diciassette anni, ero Ofelia nell’Amleto di Shakespeare da lui diretto. Con lui ho lavorato a lungo, ho fatto cinque spettacoli. Mi ha insegnato le basi del “perché sono qui”, della presenza su un palco, della possibilità e necessità di essere.
Mi sono diplomata al Conservatoire d’Art Dramatique di Parigi, che è tra le scuole di recitazione più importanti che ci sono in Europa, e così ho avuto la fortuna di incontrare anche maestri della scena francese come Alain Françon, Catherine Hiegel, Marcel Maréchal, molto diversi tra loro e altrettanto ricchi, e in generale la Francia vanta una grande tradizione teatrale. Un altro maestro che ho avuto la fortuna di incontrare in Italia è Gabriele Lavia, instancabile mattatore che mi ha insegnato l’assoluta precisione nel lavoro, e lo studio costante e infinito. E tra i pilastri della mia formazione non posso non citare Graziano Piazza, attore e regista, nonché da poco marito, compagno di vita, che mi ha insegnato tantissimo dell’atletica affettiva permettendomi di raggiungere ora una maturità artistica.

Foto di Laila Pozzo

Dove e come hai conosciuto la giovane dramaturg francese Magali Mougel e il suo testo, Penthy sur la bande?

Benché io abbia un forte legame con la Francia e con la nuova drammaturgia, non conoscevo Magali Mougel, tra le più giovani e promettenti autrici francesi. È stata una scoperta straordinaria. Me l’hanno fatta conoscere Renzo Martinelli e Francesca Garolla lo scorso anno, facendomi leggere ancor prima di tradurlo questo bellissimo suo testo che è Penthy sur la bande. Ne abbiamo fatto un primo studio a maggio scorso e ci è sembrato un lavoro così bello che abbiamo deciso di svilupparlo ancora. Loro, che insieme a Federica Fracassi dirigono il Teatro i di Milano, hanno scoperto il testo e l’autrice grazie a questo progetto fantastico , “Fabulamundi Playwriting Europe”, che permette di far circuitare la drammaturgia contemporanea in Europa. Una grande e importante iniziativa accanto ai partner italiani del progetto, Teatro i, PAV e il festival Short Theatre.
Chi è Pentesilea, per te?
Pentesilea appartiene innanzitutto al mito, è la regina delle Amazzoni, una guerriera che si batte in duello con l’amato Achille. Il drammaturgo tedesco Henrich von Kleist nell’Ottocento ha voluto invertire il mito facendo di lei un personaggio moderno, simbolo della rivalsa femminile, indagando il rapporto di coppia e frugando nei moti più riposti dell’animo umano. Così Pentesilea è diventata un personaggio trasgressivo, che rappresenta la bestialità dell’essere, l’annullamento della morale, della ragione, del bene e del male. Ovviamente esprime un paradosso, ha il valore di una metafora. È colei che è pronta a tutto pur di mantenere puro e totale il suo sentimento. L’amore che prova va oltre i confini della zona di comfort nella quale generalmente siamo. Va oltre il nostro desiderio di vivere e di morire, ci porta ai confini di tutto ciò, amplia lo spettro delle nostre possibilità di desiderare, volere e contenere l’amore dell’altro e le differenze tra uomo e donna. La nostra Penthy infatti ha “superato la soglia”, e cosa c’è dall’altra parte? Ecco che ritornano ad echeggiare in me proprio le parole di Amleto: «Chi vorrebbe trascinare una vita, qui, da bestie, se non fosse il pensiero di qualcosa là, dopo morti – un ignoto luogo da cui non si torna – a far tremare e vacillare l’anima e a far peggiore dei nostri mali ciò che non sappiamo?». Pentesilea è coraggiosa, tenta una strada. Nel bene e nel male, si addentra nell’ignoto.
Passiamo agli aspetti tecnici o tecnologici, al “come” lo spettacolo è stato realizzato. Qual è il lavoro che il regista Renzo Martinelli ha eseguito su di te, e come mai ha scelto di offrire al pubblico l’opportunità di esperire il lavoro attraverso l’utilizzo dell’olofonia?
Il testo di Magali Mougel è bellissimo e difficilissimo perché non c’è azione. Possiamo dire che il “dramma” è già avvenuto nella Pentesilea di Kleist. La Mougel mette “in voce” ciò che resta di Penthy, le macerie che costituiscono il suo dramma, che poi è quello della nostra contemporaneità. Per restituire questa complessità Renzo Martinelli ha lavorato con me su una partitura molto fitta, sia fisica sia testuale che sonora. Corpo e voce però non procedono assieme, anzi, il più delle volte si contraddicono. Il corpo fa una cosa, la voce ne dice un altra. Mi ha chiesto di “slegare”, di non organizzare parola e pensiero, pensiero ed emozione, emozione e corpo. Potrei dire che sono una sorta di marionetta che gioca a far risuonare il suono delle parole e dei frammenti che la costituiscono, per risalire nei meandri del suo mondo interiore, come in un sogno/incubo dove non c’è psicologia né morale, se non la morale propria del sogno.
L’olofonia è una strumentazione moderna che permette di ampliare particolarmente il lavoro sonoro, andando a toccare un range uditivo diverso dal solito. Si tratta di due microfoni che lavorano in coppia e sono come due orecchi, hanno la stessa sensibilità e riconoscono il suono nello spazio, in 3D. Il pubblico in sala indossa delle cuffie e così posso andare davvero a sussurrargli nell’orecchio. Chiaramente stando molto attenta a contenere la voce perché potrei bucargli i timpani (scherzo, ovviamente! Sarebbe fastidioso, questo sì). È una tecnica che richiede fiducia. L’uso della tecnologia olofonica ci permette di dare spessori diversi a tutte le voci del coro che abitano la testa di Penthy, questa “comunità” che è in lei e, forse, in ciascuno di noi. Voci che ritornano, voci ossessive, voci che si contraddicono, che spingono, che giudicano, che ridono; voci dissacranti, dissonanti, che si contrappongono all’istinto, alla natura, all’azione, voci scollegate dal corpo.
E alla luce di tutto questo, come definiresti una “marionetta sonora”?
È una marionetta che vive di una discrepanza tra ciò che esprime attraverso la voce e ciò che il corpo manifesta nel suo movimento. È quindi quello iato che non fa corrispondere il linguaggio vocale a quello fisico. Diventa sonora perché l’azione del corpo è negata, quindi è data solo da ciò che il linguaggio verbale rappresenta. Lei risale sul filo della memoria attraverso il suono, le parole del testo. La parola è come una chiave che permette di rievocare immagini e sensazioni. L’idea di marionetta riguarda qualcosa che non è deciso in quel momento: in qualche modo è qualcosa che “si fa”, che non è lei a decidere di fare. Non c’è possibilità di scelta. E tutto il testo ruota intorno a questo: la ricerca di una collocazione all’interno di uno spazio che è “oltre”.
Dopo Milano dove sarà in scena lo spettacolo?
Ancora non lo sappiamo, questo è il debutto è sicuramente lo spettacolo avrà una tournée il prossimo anno. Io invece mi confronterò ancora con personaggi del mito, dalla ripresa del mio Aiace di Ritsos, monologo con la regia di Graziano Piazza, che sarà in scena sempre a Teatro I a fine febbraio, a Elena di Troia in Troiane di Euripide al Teatro greco di Siracusa con la regia di Muriel Mayette, un nuovo incontro con una maestra della scena francese, che mi rende felice.
[Immagine di copertina: foto di Laila Pozzo]


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