Arti Performative Focus

Il regno di Padre Ubu. L’”Ubu Re” del Teatro dei Venti

Maria D'Ugo

Di solito chi compie gli anni è nella posizione di “ricevente” quando arriva il giorno fatidico, atteso o sfuggito a seconda delle sensibilità, di fare i conti col tempo. Fortunatamente il rovesciamento è proprio quel che bene o male ci si aspetta dalla scena e dunque ben venga che, alla quattordicesima candelina spenta, sia il Teatro dei Venti a mettersi nella condizione di poter fare un regalo, riportando in scena domenica 3 febbraio il suo Ubu Re. Permettendosi di farlo con la consueta generosità che contraddistingue l’approccio metodologico dell’eterogeneo gruppo modenese, a cui se ancora manca un po’ per raggiungere la maggiore età (il commento è di diretta paternità del regista e drammaturgo Stefano Tè), di sicuro è una compagnia sempre ben felice, come tutti gli adolescenti, di mostrare la propria personalità, definita e solida. Andato in scena in doppia replica all’ITC di San Lazzaro di Savena, lo spettacolo è figlio del tema proposto per il biennio 2016-2018 dal Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, ma soprattutto figlio della linea di ricerca che caratterizza i lavori della compagnia: linea che tende letteralmente a correre fuori dai teatri per installarsi in un “esterno”. Piccolo termine, che significa e sottende sempre molti più livelli.

Questo Padre Ubu, intanto, abbandona il palco per prendere possesso del suo regno sotto a un tendone da circo (il suggestivo spazio dell’ITC Lab) e dall’alto di un intrico di pedane di legno, che costruiscono una scenografia in perenne movimento e sempre più alta (tanto quanto lo sarà poi la caduta dei personaggi?), va a controbilanciare la comicità grottesca e irriverente che nel grande classico di Alfred Jarry si trovava all’interno della dimensione linguistica, forse il tratto determinante nell’opera originale del 1896, con un altro tipo di “pieno”, giocato tutto sul piano visivo e dell’allusività del gesto. Si espunge la parola, fino al celebre merdre! che a suo tempo scandalizzò l’Œuvre di Parigi, per controbilanciarla con i corpi che riempiono di sempre più elementi lo spazio che abitano. Se questo rende i personaggi decisamente meno sprovveduti dei loro antesignani, anzi, piuttosto forse li “aggrava” eccessivamente, d’altro canto sposta anche i termini della questione: la studiata e calcolata precisione con cui questi indicano, costruiscono, accennano, sfilano, danzano, restituisce naturalmente l’opera a un nucleo tragico. E a una prevedibilità che sembra la stessa insita nei concetti di “destino” e “potere”, poi diventati il terreno sul quale, con la stessa naturalezza, è approdata l’indagine della compagnia. La fisicità e l’accuratezza nella costruzione scenica (che troverà poi un culmine nell’ultima produzione dello scorso anno, con la nave-palcoscenico del Moby Dick) anche in questo caso sono gregarie di un altro tipo di intelligenza costruttiva, che rende alcuni quadri indelebili: come nel caso della sfilata dei nobili e dei contadini verso gli spaghetti che escono dal secchio e sembrano non finire mai, o in quello della danza della regina Rosmunda, forse il personaggio dalla tragicità più marcata, in precario equilibrio sulle pietre che lei stessa genera dalla lunga gonna.

“Ubu Re” del Teatro dei Venti. Foto di Chiara Ferrin

La compagnia è ben consapevole dell’alto grado di responsabilità che è necessario assumersi nei confronti di tutto quello che è “esterno” al teatro, ma nel caso dell’Ubu Re del Teatro dei Venti la ricaduta non è meramente tecnica o formale. Un traguardo importante si gioca anche sul binomio sparizione/emergenza: in uno spettacolo di teatro-carcere, spariscono i carcerati. Collegati dalla stessa “afasia” e dalla stessa caduta, restano solo gli attori. Emerge dunque quello che lo stesso Tè, all’uscita dallo spettacolo, ha giustamente definito «visibilità come diritto all’esistenza» (assioma forse più scomodo per chi il teatro lo frequenta, o per gli addicted dell’impero mediatico, che non per chi in queste pratiche poetiche individua il proprio libero terreno di resistenza). Le pedane in scena, dal loro canto, permettono che questa “emersione” la si possa vedere da tutti i lati.

 

[Immagine di copertina: foto di Chiara Ferrin]



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