“Avevo un bel pallone rosso”: storia di una Margherita che diventò Mara
Andato recentemente in scena al Piccolo Bellini di Napoli, Avevo un bel pallone rosso, testo di Angela Demattè per la regia di Carmelo Rifici, viene ripreso in un nuovo allestimento prodotto da LuganoInScena a sette anni dal suo debutto, dopo il successo riscosso. È il racconto della storia di Margherita Cagol, conosciuta come Mara, leader e co-fondatrice delle Brigate Rosse. La scenografia è quella di un interno con gli arredi degli anni ’60, tavolo da pranzo in fòrmica ed acciaio e sul tavolo una Olivetti “Lettera 32”. Seduta dietro al tavolo c’è Margherita intenta a studiare. Di tanto in tanto Margherita alza la testa dai libri e con ritmo incalzante rivolge numerose domande al padre che sta dall’altra parte della scena, trincerato dietro la scrivania antica del suo studio. Sono domande che indagano il mistero della vita, dell’uomo, delle contraddizioni intimamente celate nelle profondità del suo animo e che si esplicano nella capacità di amare o di distruggere; il dialogo tra padre e figlia si fa sempre più aperto e profondo, arriva ad ancorare le inquietudini di lei, studentessa alla facoltà di sociologia di Trento, sempre più coinvolta nelle dinamiche delle contestazioni che nel 1965 agitavano l’ateneo.
Quello tra Margherita e il padre non è solo un confronto intergenerazionale ma è anche, e soprattutto, la contrapposizione tra senno e cecità, tra la tendenza a conservare un determinato sistema di riferimento e la volontà di ribaltarlo del tutto. La scelta di far dialogare i personaggi in dialetto trentino ci consente di entrare nel mondo di Margherita, nella sua casa ed in una famiglia appartenente alla piccola borghesia saldamente ancorata ai valori del cattolicesimo. È a partire da qui che avviene lo scollamento e un po’ alla volta Margherita si allontana dalla confidenza filiale, dall’affetto nei confronti del padre prima ancora che dalle sue abitudini e valori; Margherita diventa Mara e sposa Renato (Renato Curcio), suo compagno di facoltà e di lotte che man mano travalicano i confini dell’ateneo per prendere piede nella società italiana degli anni sessanta. Il padre, prima accanto e poi intorno a lei, assiste inerme alla deriva ideologica che sembra aver preso il sopravvento sui principi morali della ragazza. Un display alla sinistra del palco segna le date in cui si svolgono i fatti; insieme ad esse, alcune didascalie fanno da corredo a qualche inciso decontestualizzato dei due interpreti che, a tratti, interrompono i loro dialoghi per enunciare le ragioni della lotta con toni di propaganda che quasi sembrano portarli in uno stato di trance.
Il talento dei due attori, Andrea Castelli e Francesca Porrini, non passa certo inosservato. L’interpretazione di lui è particolarmente degna di menzione: Castelli ci fa desiderare di sedere al posto di Margherita per il solo fatto di poter essere interlocutori in un confronto tanto impetuoso quanto profondo. L’escalation che Margherita segue fino a diventare Mara, donna leader delle BR, è inarrestabile e senza rimedio, e a nulla valgono i tentativi del padre di riportarla sui suoi passi. No, la rabbia cresce e con lei anche il desiderio di mettere il mondo a ferro e fuoco. Desiderio che tenta di trovare legittimazione nella lotta di classe e nella liberazione dal giogo di un sistema sociale mirato all’accumulo del capitale. Mara, a Milano, organizza la lotta e la sua nuova vita in clandestinità, il suo destino man mano prende forma mentre la sua immagine sbiadisce: il display che prima mostrava una foto sfocata di Lenin deforma adesso il viso di Mara fino a restituire l’immagine inquietante della sua trasformazione. Mara è nervosa, sovrappensiero. Anche la sua postura da composta è diventata sciatta e il dialogo col padre si annulla in momenti di silenzio sempre più lunghi. Persino quando lui le confida di essere ammalato la sua reazione risente di un certo distacco emotivo, che viene fuori dalle poche parole che riesce a pronunciare con un tono di voce somigliante a quello di un proclama. Mara e il padre non sono altro che l’incarnazione di ciò che secondo la storia è stato e di ciò che poteva essere; stessa lingua, ma nessuna comprensione se non quella che può operare un padre nel contenere, in sé, l’amore per la figlia e l’angoscia per un epilogo tristemente prevedibile. La fine di questa storia arriva in un giorno preciso: il 5 giugno del 1975. Mara perde la vita durante un conflitto a fuoco con i carabinieri mentre Margherita sparisce tra le pieghe delle mani che reggono la testa del padre ormai affossato dal dolore.
Rifici traduce, così, la fine della storia nel simbolismo onirico. Il nastro si riavvolge e Mara è di nuovo Margherita. Margherita fa un sogno, sogna un cane nascosto nel portabagagli di un’auto. Quel cane è destinato ad essere ammazzato. Quel cane è il padre. Tutta la vita di prima non c’è più. Tutta la vita di prima e le speranze del padre sono nel portabagagli dell’auto. Il “pallone rosso”, che riprende una filastrocca che Margherita aveva appuntato in un suo quaderno da bambina, è probabilmente l’allucinazione utopica di poter cambiare un paradigma di riferimento attraverso la cieca violenza: qualcosa che non ha gravità, e che inevitabilmente è destinato a esplodere sotto il peso delle sue stesse contraddizioni.
AVEVO UN BEL PALLONE ROSSO
di Angela Demattè
regia Carmelo Rifici
con Andrea Castelli e Francesca Porrini
scene e costumi Paolo Di Benedetto
musiche Zeno Gabaglio
luci Pamela Cantatore
video Roberto Mucchiut
regista assistente Alan Alpenfelt
produzione LuganoInScena, TPE Teatro Piemonte Europa, CTB Centro Teatrale Bresciano
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura
Presentato all’interno del FIT Festival Internazionale del Teatro