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Dal teatro al turismo esperienziale: una via da percorrere “su due piedi”. Intervista a Simone Pacini

Andrea Zangari

L’uomo che cammina è un motore irresistibile che con sé muove il mondo. Italo Calvino scriveva che «Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi». Una prospettiva ribaltata, antropocentrica, che ridiviene possibile e, se vogliamo, torna prepotente nonostante – o forse proprio a causa – dell’ipertrofia tecnologica del quotidiano. A teatro, quello dell’arte in cammino, lungo il cammino, dentro il cammino, è un tema profondo e antico. Le sacre rappresentazioni medioevali non a caso erano inscenate lungo le tratte e nelle stazioni di posta delle grandi vie di pellegrinaggio, come la via Francigena. 

Proprio lungo la via Francigena Simone Pacini, poliedrico “viralizzatore” della comunicazione social a tema teatrale e blogger di “fattiditeatro”, ha vissuto un’esperienza di teatro in cammino nella veste di social media storyteller del progetto Il teatro… su due piedi – camminata in Toscana e Lot-et-Garonne a cura di Paolo Magelli, direttore del Teatro Metastasio Stabile della Toscana dal 2010 al 2015, e Philippe Violanti, Presidente del Théâtre École d’Aquitaine.

Simone, che non ama definirsi un critico (o almeno “non più”), ma, piuttosto, un “esperto” di teatro, ne parla in un suo agile libello fresco di pubblicazione, dal titolo Il teatro sulla Francigena – Trenta attori in cammino dalla Toscana alla Francia, edito da Silvana Editoriale con il patrocinio della Regione Toscana, con contributi critici di Andrea Porcheddu e Carlo Infante.
Il testo si offre come testimonianza per chi voglia realizzare progetti di turismo esperienziale o per quanti, nel mondo del teatro, si interessino a una dimensione produttiva innovativa e al tempo stesso antica, nel suo essere legata alla fatica e all’incontro. Una dimensione, bisogna dire, oggi ancora troppo poco valorizzata in Italia. Ci sembra questo uno dei motivi su cui riflettere urgentemente, soprattutto alla luce dell’attuale crisi della mediazione culturale, nella fattispecie teatrale, in un’epoca in cui occorre ridefinire continuamente i contorni del proprio lavoro per sopravvivere, investendo tempo e risorse nella progettazione di nuove idee che siano in ascolto con i desideri reali della società coeva.

In queste righe abbiamo infatti colto a pretesto la pubblicazione del libro per incontrare Simone, raccogliere da lui suggerimenti e discutere sulle contaminazioni che esperimenti come “il teatro su due piedi” offrono, non solo al mondo del teatro istituzionale, ma anche alla folta schiera degli aspiranti mediatori culturali. 

 

Parlaci in breve del progetto Il teatro… su due piedi – camminata in Toscana e Lot-et-Garonne? Come sei entrato nel progetto, quale ruolo hai ricoperto?

Mi chiamò nel 2013 Franca Mezzani, l’allora ufficio stampa del Teatro Metastasio, presentandomi l’idea di un cammino di quasi 300 Km da percorrere in un mese, con i ragazzi di due scuole, quella del Teatro Metastasio e quella del Théâtre École D’Acquitaine. 29 allievi alle prese con l’impegnativo compito di rappresentare alcuni spettacoli lungo il cammino, fra chiostri e piazze, non il solito saggio spettacolo di fine Accademia. Il ruolo che mi avevano proposto era quello di accompagnare l’esperienza con una serie di azioni live sul web: un social media storytelling. Avevo due possibilità: camminare col gruppo o seguirli con una macchina incontrandoci nei punti di arrivo. Ma ho subito pensato che per vivere appieno l’esperienza dovevo camminare insieme ai ragazzi. Durante i momenti di cammino postavo su Twitter e Instagram i momenti salienti. A fine tratta, arrivati alla destinazione del giorno, andavo in cerca del Wi-Fi e caricavo sul blog Intoscana della Regione Toscana il diario del giorno. Più che un resoconto specialistico, la narrazione spesso descriveva la bellezza del paesaggio, i momenti conviviali, gli inconvenienti, la fatica del camminare, gli incontri col pubblico e altri viandanti. 

Cosa ti ha spinto a volere dare una veste cartacea a quel racconto scritto a caldo?

Sono tornato sull’esperienza per due motivi. In primis perché un libro ha ottime probabilità di vivere fisicamente più di noi. Secondo, perché una testimonianza fisica può essere un motore per analoghi progetti teatrali o turistici. L’idea del teatro in cammino è un’occasione per la conoscenza del paesaggio e per far tornare il teatro nelle piazze. L’azione del camminare è un fattore che influenza la fruizione dello spettatore, ma anche la produzione. Si può parlare di vera e propria drammaturgia dello spazio. I ragazzi hanno lavorato su materiali di Dario Fo, Goldoni, Boccaccio; ma è dai lavori recenti di Marco Martinelli e Ermanna Montanari (Teatro delle Albe) come Inferno, o di Armando Punzo (Compagnia della Fortezza) come Mercuzio non vuole morire, ma anche dei Rimini Protokoll, che avvertiamo come l’idea del teatro in cammino riporti il teatro a un meccanismo antico, e allo stesso tempo attuale. Così come antica è anche l’idea del libro in carta. Mi piace mettere a confronto questi linguaggi tradizionali con le nuove tecnologie, creando dei cortocircuiti, facendo crossing culturale fra testi, temi e persone. D’altro canto il progetto stesso mescola giovani attori italiani e francesi.

Foto di Filippo Bardazzi

Il teatro in cammino era un tema nuovo per te? Ti eri interessato prima a esperienze simili?

Io lavoravo da anni con Urban Experience, che segue l’idea di passeggiare ricostruendo lo spettacolo delle città coi propri occhi. In quel contesto l’obiettivo è creare un’esperienza della geografia urbana attraverso la valorizzazione delle reti sociali del territorio, raccontando e contaminando il cammino con le nuove tecnologie. Non si tratta di un’esperienza esplicitamente legata al teatro, ma al paesaggio, al camminare e al coinvolgimento diretto dell’utente nella formazione dell’esperienza. Il ché, a ben vedere, ha qualcosa in comune con “il teatro su due piedi” e l’idea del teatro in cammino: il legame tra narrazione e azione. 

Non sei un teatrante, e in questi progetti il tuo nome spicca come una sorta di outsider. Come inquadri il tuo ruolo rispetto alle professionalità “autoctone” del teatro?

Io non vorrei inquadrare la mia figura entro confini rigidi, preformati. Per certi versi sono semplicemente uno spettatore. O forse mi vedo un po’ come uno shaker, come uno che porta vicine esperienze diverse tra loro, mescolandole e raccontando la bellezza dell’ibridazione.  

Che cosa ti ha lasciato “il teatro su due piedi”? Hai qualche idea futuribile per portare il tema del teatro in cammino all’attenzione del pubblico?

Mi ha lasciato una consapevolezza nuova del camminare. C’è una distinzione fra il cammino, inteso come un’azione indirizzata verso una meta o un punto particolare del paesaggio, e il camminare come azione casuale, sparsa. Sia che siamo in città o sia che ne siamo fuori, avere un obiettivo fa sì che lo sguardo si concentri. E quel punto di fuga trovato crea il paesaggio. Lungo lo stesso percorso, guardare in alto non dà le stesse sensazioni che guardare l’orizzonte. Ora, fatto tesoro di questo diverso modo di guardare, mi piacerebbe organizzare almeno un momento di riflessione con tutte le realtà che hanno guardato all’idea del teatro in cammino e mettere a tema l’importanza del “teatro fuori dal teatro”. Oltre agli artisti già citati, penso al Circolo Bergman, Marco Cacciola, a Cuocolo/Bosetti.

Simone Pacini e il suo libro “Il teatro sulla Francigena”, Silvana Editoriale, 2018

Qual è secondo te il lettore ideale del tuo libro?

Chi guarda con interesse a forme nuove di turismo, slow, sostenibile, esperienziale, per usare le formule più in voga. Qualcuno che si lasci incuriosire senza avere necessariamente una cultura tradizionale del teatro. Nel libro si parla infatti più dei momenti di convivialità o delle risorse del territorio che abbiamo attraversato, piuttosto che del teatro in senso specialistico. Ovvero di tutto quanto stava intorno, che passava attraverso la mia vita di spettatore. Questa è una lezione che può essere riportata nel teatro inteso come luogo istituzionale. Penso a quanto la percezione dello spettacolo sia ancora molto rigida, soprattutto in Italia. I nostri teatri all’italiana sono un patrimonio magnifico, ma molto spesso ermetico, chiuso alla maggioranza degli abitanti delle città. Il teatro deve diventare un luogo aperto, un’agorà. Guarda caso, l’Italia è il paese in cui il teatro in cammino ha meno attenzione che in altri contesti europei.

Ultimamente hai scritto sul tuo blog di un tuo nuovo progetto che stai testando, “A teatro con l’esperto”. Di cosa si tratta?

“Airbnb” da circa due anni ha lanciato le “esperienze”, che non hanno niente a che vedere con le case. Puoi non avere una casa da affittare, ma hai delle esperienze da offrire e da far fare. Il meccanismo è lo stesso: invece di proporre un alloggio in affitto per un breve periodo, offri un’esperienza, che è qualcosa legato al territorio e di cui tu, cioè colui che propone, sei “esperto”. Sono sempre stato affascinato da “Airbnb”, con tutti i limiti che ha, ma mi sono appassionato al suo funzionamento e ho iniziato a conoscere la community romana, proprio delle esperienze di “Airbnb”. Per esempio, ho partecipato a un concerto rock su un tram dell’Atac, una festa di Natale; esperienze classiche sono lo “street food romano”, dove si decide di andare a mangiare supplì; visite alla street art, portando le persone a conoscere la street art in zona Ostiense; cene bendate, passeggiate a cavallo, ecc. Nulla da tour operator classico, insomma. E io ho proposto “A teatro con l’esperto”: un’esperienza di visione. Gli utenti prenotano e si va a teatro insieme. Per lo più sono gli stranieri a prenotarsi, quindi ho sempre proposto spettacoli di danza o comunque performance che non avessero bisogno della comprensione di un testo. Ci si vede mezz’ora prima davanti al teatro, racconto loro dove siamo, un po’ di storia del quartiere, qualche parola sul regista – ma non troppe! – perché amo l’effetto di shock, e sorprendere chi non è abituato all’esperienza, cui ci si deve abbandonare. Dopo si va a bere un bicchiere di vino insieme, per parlare dello spettacolo, ma non solo. Cerco poi, quando possibile, di far interagire il gruppo con gli addetti ai lavori del teatro o dello spettacolo, permettendo anche di incontrare gli artisti. Si sta investendo moltissimo sulla sovrapposizione “esperienza/esperto”, e questo legame è quello che io sto provando a intercettare.

Pensi che il carattere esperienziale dell’offerta possa giovare anche ai grandi teatri?

Sì. Ci sarebbe bisogno di “festivalizzare” le stagioni. Di convogliare attraverso un’offerta ibridata un pubblico nuovo. Pensiamo al flusso di turisti che passa da Roma: non sarebbe il caso di programmare spettacoli con sopratitoli in inglese? Davvero crediamo che le centinaia di migliaia di turisti siano solo interessate al Colosseo, e non anche alla cultura teatrale nostrana? E perché non è permesso scattare foto durante lo spettacolo, se si è in una posizione tale che non si dà fastidio, come si fa ai concerti? Perché non possiamo portare una birra in sala? Come si faceva al Teatro Valle Occupato, intorno a cui si costruì una comunità. Perché in molti grandi teatri manca un bar, un punto dove fermarsi prima o dopo lo spettacolo? Se il teatro è un luogo pubblico, un punto di incontro, allora c’è bisogno di spazi concreti per vivere quella relazione. 

 

[Immagine di copertina: uno scatto dal progetto “Il teatro… su due piedi”, foto di Egisto Nino Ceccatelli]

 

Per approfondire:

Franco Cappuccio, “Pellegrino laico” per amore del teatro: intervista a Marco Cacciola in scena a Mutaverso Teatro, 12.12.2018
Valentina Solinas, Il teatro della critica: il teatro delle soluzioni?, 01.01.2016
Renata Savo, Cuocolo/Bosetti // The Walk, 15.04.2015
Renata Savo, Rimini Protokoll // Remote Milano, 22.11.2014

 



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